Iran, come favorire il dialogo

di ALESSANDRO LETO - Quando un? epoca volge al termine la storia imprime cambiamenti repentini ed ingiunge di voltare pagina, anche con gesti prima apparentemente impensabili. E quanto accade proprio in questi giorni nell?ambito delle tormentate relazioni USA-Iran, sembra pure confermare il vecchio adagio di Churchill secondo il quale «le nazioni non hanno amici o nemici permanenti, ma solo interessi permanenti». Comincia infatti a ridursi la distanza fra i due Stati. Una distanza che da siderale, si è via via fatta sempre più misurabile in queste ultime settimane: misurabile in senso politico ed anche economico. Politicamente infatti, il governo di Washington ha fatto una scelta strategica di fondo decidendo di concentrare il proprio sforzo militare in Afghanistan e, anche se si avverte la necessità di definire diversamente questo impegno dandogli una prospettiva nuova e credibile che vada oltre quella maturata ai tempi di Enduring Freedom, per muoversi in quell?area non si può prescindere da un?idonea relazione col governo di Teheran. L?Iran ha da parte sua almeno due buoni motivi per ricambiare l?invito al dialogo offerto dagli Usa. Il primo è legato alle insidie insite nella presenza dei talebani sunniti ai propri confini, così volubili nel definire i criteri con cui identificare i nemici della Umma alla galassia endemica di terroristi sparsi per il mondo, al punto che domani potrebbero colpire senza preavviso proprio i cugini sciiti. Il secondo è legato al riconoscimento, anche formale, dello status di potenza regionale, grazie al quale potrebbero ridefinire i parametri della loro escalation nucleare e quindi rimuovere l?embargo i cui effetti cominciano a pesare sugli iraniani. L?offensiva diplomatica della Casa Bianca, anche attraverso i buoni uffici dell?Italia Presidente di turno del G8, è senza precedenti ed abbraccia una larga area che va dal Vicino Oriente, con Siria, Palestina e Libano, fino all?Asia centrale, concentrandosi su Pakistan, Afghanistan ed Iran appunto. Si tratta di una manovra di accerchiamento che mira ad isolare le frange oltranziste, offrendo ai governi di questi paesi l?opportunità di cominciare un nuovo corso politico basato su una disponibilità senza precedenti da parte dell?amministrazione americana ad ascoltare le loro opinioni senza apparenti pregiudizi, anche se la convinzione di fondo rimane quella di sempre, legata com?è alla radicale divergenza che divide in maniera ancestrale modelli culturali strutturalmente differenti. Questa nuova stagione di dialogo, che tutti speriamo proficua e di lungo periodo, poggia proprio sul cambiamento dell?atteggiamento di fondo dei contendenti. Da un lato gli americani cominciano a prendere coscienza che esista anche «l?altro da sé», cioè percepiscono che esistano ed abbiano diritti inalienabili anche i membri di altre comunità: una decisione forzata in questo senso anche dal fallimentare epilogo della guerra irachena che lascia un? eredità fatta di instabilità dell?area non meno precaria di quella precedente e con un costo in vite umane e risorse dei cittadini davvero altissimo. Dall?altro gli iraniani si vedono offrire un?opportunità di trattativa che consente loro di non arretrare formalmente rispetto alle tipiche posizioni oltranziste di propaganda, perché avendo identificato per otto lunghi anni la politica estera USA con la figura di George Bush, oggi possono sedersi al tavolo delle trattative con chi lo ha battuto facendo leva proprio sui costi umani ed economici della campagna in Iraq. Obama abilmente sfrutta questa timida disponibilità ben sapendo che a Teheran si soffre, non solo per gli effetti che l?embargo ha prodotto sulla società civile iraniana, ma anche perché proprio lì comincia ad insinuarsi la convinzione che il ruolo di potenza regionale si conquista soprattutto con le doti della politica e si consolida con un?abile regia diplomatica. Insomma, è certamente giunto il momento che tanti aspettavano per veder scemare la componente demagogica dell?odio reciproco alimentato dalle solite campagne denigratorie che hanno impedito fino ad ora di ragionare sul futuro dell?area in maniera costruttiva e condivisa: è meglio un accordo parziale, ma condiviso, piuttosto che perseverare nell?atteggiamento muro contro muro cui abbiamo assistito sinora. Anzi, il rischio concreto per entrambi è che la mancanza di un accordo che stabilizzi l?area, finisca per consentire il dilagare di una serie di microconflitti tipici della guerra tra bande, che consentirebbero di tenere vivo il mito del terrorismo anti occidentale militante con i conseguenti, gravi rischi per gli interessi e la sicurezza europea ed americana.Ma anche la crisi economica corrente incide sensibilmente su questo nuovo corso della politica in Medio e Vicino Oriente, posto che, mentre in Occidente il crollo dei consumi ha messo alla berlina il nostro sistema produttivo parallelamente i paesi esportatori di petrolio si sono visti ridurre drasticamente i profitti relativi, con un crollo verticale dei prezzi (e la contrazione generale dei consumi) e nel caso specifico la NIOC (National Iranian Oil Company) non è più in grado di finanziare a fondo perduto il costoso regime che Teheran ha realizzato alimentando il terrore ovunque potesse, da Hamas ad Hezbollah, fino alle schegge terroriste sparse in tutto il mondo. Ciò che conforta gli analisti in questa fase delicata, è che il carattere globale della crisi economica, al contempo epocale e di sistema, costringe pressoché tutti gli Stati a ridurre le loro ambizioni belliche egemoniche, nel tentativo di dare risposte rapide e concrete ai propri cittadini in emergenza. Anche se la prudenza è d?obbligo poiché, mentre Obama si è appena insediato, a Teheran si è in piena campagna elettorale e l?esito di questa cauta apertura reciproca dipenderà molto dal vincitore delle elezioni, visto che Khatami proseguirebbe su questa strada, mentre Ahmadinejad preferirebbe mantenere lo status quo tradizionale. Se confermato, questo nuovo ciclo porterebbe però inevitabilmente a cercare nuovi punti di contatto, esplorando inedite opportunità di collaborazione, anche con chi fino al giorno prima era indicato rispettivamente come il «diavolo», o come lo stato «canaglia». Il tentativo è appena all?esordio, ma la determinazione e la disponibilità con la quale viene perseguito, soprattutto in questa fase iniziale da Washington, fa ben sperare sul superamento di un nodo per la sicurezza internazionale che, dopo trent?anni, è bene sciogliere per voltare pagina ed inaugurare una stagione di buon senso con beneficio di tutti.