Italia: immigrazione e "buonismo"

di PIERO OSTELLINO - Con la sola eccezione di frange minoritarie di idealisti ad oltranza, per di più di matrice religiosa, che vedono nell'accoglienza all'immigrazione di massa, compresa quella clandestina, una forma di causa umanitaria della quale farsi interpreti, e di altrettanto minoritari e irriducibili terzomondisti, per lo più di matrice ideologica di estrema sinistra, che ci vedono una sorta di risarcimento del capitalismo al sottosviluppo delle popolazioni ricche del Nord del mondo a quelle povere del Sud del mondo, l'ondata immigratoria che ha sommerso il Paese non è vista male dalla maggioranza degli italiani. Che ci trovano manodopera a basso prezzo per quei lavori che i giovani locali non vogliono più fare. Dalle badanti per i più anziani, alle baby sitter per i più piccoli, per non parlare del mondo dell'economia, dall'edilizia alla piccola e media industria che produce ai margini della legalità in termini di diritto del lavoro e all'agricoltura, dove il bracciantato stagionale è la regola, l'immigrazione è una risorsa per la società civile e per l'economia di un Paese dove l'età tende ogni giorno ad alzarsi tanto da farne un Paese in gran parte di pensionati e di vecchi e in minima parte di «figli di papà» che restano in famiglia, senza lavoro, fino a oltre i trent'anni.D'altra parte, poiché ai propri interessi, se non addirittura ai propri vizi e in assenza di una politica dell'immigrazione razionale e coerente, bisogna pur sempre trovare una giustificazione socio-politica, se non etica, il disagio inevitabile delle popolazioni autoctone che vengono a contatto diretto con culture, costumi, abitudini, religioni diversi dai propri è etichettato volentieri come «razzismo» perché così vuole la polemica politica, in particolare nei confronti di quel fenomeno sociale anomalo per la tradizione politica nazionale che è la Lega nel Nord del Paese. Tutto ciò spiega perché molti politici, intellettuali, giornali, abbiano registrato e interpretato - a seconda della propria coloritura politica - la rivolta di Rosarno in Calabria delle popolazioni locali contro gli immigrati neri, da sinistra come una ulteriore prova di «razzismo» da parte di frange minoritarie di destra, paragonate addirittura all'americano Ku Klux Klan, ovvero, da destra, come una testimonianza della legittima reazione della popolazione «bianca» di fronte all'eccessiva indulgenza della sinistra per un'immigrazione «nera» incontrollata e in gran parte clandestina. In entrambi i casi si tratta, però, di una interpretazione «politicamente corretta» che consiste nel seppellire sotto una montagna di ipocrisia le vere dimensioni del problema, che riguardano, prima che le condizioni sociali ed economiche nelle quali si è male integrata l'immigrazione, una questione di ordine pubblico e di legalità.Detta in termini brutali, la questione è la seguente: fino a quando la manodopera di immigrazione risponde alle esigenze e alle aspettative economiche delle organizzazioni, legali o illegali, che la impiegano, il problema non esiste né per quelle né per l'opinione pubblica nazionale. Nessuno, prima della rivolta, si era chiesto, e tanto meno se ne era preoccupato, come vivessero gli immigrati impiegati nelle campagne calabresi a raccogliere i prodotti poi venduti sul mercato a prezzi, appunto, di mercato. Eppure, non era affatto un mistero che gli immigrati non fossero pagati a prezzo di mercato, ma sottopagati, per non dire brutalmente sfruttati, dalle organizzazioni, per lo più criminali o controllate dalla criminalità, locali e vivessero in condizioni subumane sotto il profilo igienico. Una volta scoppiata la rivolta dei «bianchi» contro i «neri», gli immigrati sono diventati il «bovero negro» del pietismo e della retorica nazionali. Ora, che i tentativi di linciaggio del «diverso» dovessero essere repressi con la forza della legge, è un fatto indiscutibile; un altro è che si sia aspettato che le cosche incoraggiassero e organizzassero la persecuzione degli immigrati di colore per ragioni strettamente di natura economica quale l'assorbimento sempre più precario della (peraltro scarsa) manodopera locale anch'essa sotto il controllo della criminalità e a condizioni non meno vessatorie.La verità nuda e cruda è che situazioni come quella di Rosarno sono destinate probabilmente a ripetersi in tutto il Sud per la semplice ragione che al Sud lo Stato non c'è più da tanto tempo, ha perso il controllo del territorio, che è finito, con tutte le attività che vi si svolgono, nelle mani della criminalità organizzata: la ?Ndrangeta in Calabria, la Camorra in Campania, la Mafia in Sicilia. Ma è anche vero che non lo si può dire, e tanto meno lo può ammettere lo Stato, perché altrimenti si dovrebbe concludere che l'Italia non è un Paese civile, ma solo una «espressione geografica» e non delle più felici. Basti pensare che nelle regioni dove è la criminalità a comandare, il lato surreale della situazione è che la sicurezza della maggioranza dei comuni cittadini è garantita dalla criminalità stessa che - proprio come lo Stato con le tasse in un Paese «normale» - assicura la propria protezione dai crimini cosiddetti minori grazie al «pizzo» che le attività imprenditoriali le pagano per poter esistere e produrre. Un paradosso doloroso, e anche parecchio vergognoso, da ammettere, ma uno dei tanti paradossi dell'Italia che conosce un articolato e diffuso sistema legale che mette non solo tutti i suoi cittadini, ma anche gli immigrati, su un piano di parità di fronte alla legge solo nel Nord culturalmente oltre che economicamente sviluppato. Fino a quando le forze politiche di ogni colore non riconosceranno che quello dell'immmigrazione è un problema che non si risolve col «buonismo» dei pater noster o con gli ideologismi pseudo-guevaristi del terzomondismo, ma sul terreno legale del Diritto del lavoro e dell'ordine pubblico, in una parola, col ripristino del controllo, da parte dello Stato, su metà del Paese oggi nella mani della Grande criminalità, non se ne esce. E, a ogni rivolta, quale ne sia l'origine, saranno la retorica e l'ipocrisia ad avere il sopravvento sul senso comune e sulla politica. Senza soluzione possibile.