La camera oscura del male

di FERRUCCIO DE BORTOLI - Curiosa e cinica è la cronaca degli anni del terrore. Appena si è saputo che l'attentatore di Monaco Alì Sonboly non era un seguace dell'ISIS, bensì più modestamente di Anders Breivik, il killer di Utoya – nel giorno in cui ricorreva il quinto anniversario della strage norvegese – c'è chi ha tirato un sospiro di sollievo. E i nove morti, di cui otto fra i 14 e 21 anni, sono stati derubricati alla voce dell'ordinaria follia, come fossero vittime di seconda serie.
La carneficina di Monaco è stata classificata nel filone Columbine, la strage nel liceo del Colorado del 1999, tredici morti. Armi imbracciate con troppa facilità da disadattati e invasati in cerca di un teatro dell'orrore nel quale esibirsi. Di una vendetta nei confronti dei propri coetanei. Dopotutto, siamo nella fisiologia delle società moderne. Il male è componente imprescindibile, si annida in ogni angolo della vita quotidiana, prorompe secondo logiche imprevedibili. Il terrorismo è invece la patologia, la malattia da debellare.
Al cittadino inerme che frequenta i luoghi pubblici, i centri commerciali, che si ostina a non mutare le proprie abitudini, importa assai poco disquisire sulla matrice della violenza. È interessato prima di tutto alla sua sicurezza, a difendersi. La percezione del pericolo che incombe sulla sua vita è proporzionale all'intensità del terrore in qualsiasi forma si manifesti. Le modalità di esecuzione delle stragi sono le stesse, i luoghi e gli effetti pure. Un fenomeno influenza l'altro. Alì, il diciottenne tedesco di origini iraniane, aveva sul comodino un libro di un esperto, Peter Langman: «Follia omicida, perché gli studenti uccidono». Scritto per prevenire. Letto per imitare. C'è un dizionario del delitto, soprattutto nel cosiddetto deep web, quello non raggiunto dai motori di ricerca, che dischiude ad ogni lemma gironi danteschi di informazioni sconosciute. Rovistando nei bassifondi della Rete l'assassino avrebbe comprato la sua arma. In Germania, il Paese in cui è più difficile possederne una. Pianificato l'eccidio. Sembra che su Facebook Alì avesse costruito una sorta di esca digitale per attrarre il maggior numero di frequentatori nel luogo che aveva deciso di colpire. L'ISIS ha fatto della Rete uno strumento sofisticato della propria propaganda. La navigazione negli anfratti più nascosti, che sfuggono a ogni controllo, alimenta il fenomeno dell'imitazione, dell'emulazione del gesto. Nutre e appaga i lupi solitari, recluta gli autodidatti del Jihad, incita anche le menti disturbate a uscire dall'anonimato conquistando una celebrità desiderata come la più sofisticata delle droghe. La sparatoria di Alì è stata celebrata sui social network del Califfato. L'ansia di moltiplicare i followers accomuna folli e terroristi. Il moltiplicatore del web è infinito. Ma davvero ne dobbiamo essere tutti schiavi, media compresi? O qualcosa si può e si deve fare?
Chi studia la psicologia del mondo digitale segnala l'inconsistente differenza fra finzione e realtà, come avviene peraltro con i videogiochi. La virtualità deborda. E non vi è più soluzione di continuità fra ciò che è finto, vissuto con l'intensità del vero, e la realtà che sembra soltanto la logica conseguenza, un po' noiosa, di un'esperienza digitale. La religione è un propulsore formidabile nell'armare le menti. Breivik professava un farneticante cristianesimo che conferiva un'apparente giustificazione alla propria fantasia criminale. Una seduzione che si esercita in molti terroristi appena radicalizzati, come l'assassino di Nizza, assai lasco nell'obbedire al Corano. L'Islam radicale, con la sua delirante liturgia di morte, è anche lo strumento più acuminato da scagliare contro la società occidentale, il vendicatore di torti subiti, spesso immaginari.
L'Occidente sotto assedio, già impegnato a resistere agli attacchi pressoché quotidiani del terrorismo islamico, che ci vuole morti o sottomessi (quale sublime indulgenza!), deve capire e prevenire anche la fisiologia della follia omicida ampliata dal sicuro palcoscenico mediatico. E scopre di sapere assai poco dell'immenso oceano delle informazioni disponibili a chiunque sul web, della vasta gamma di strumenti che creano dipendenza criminale o favoriscono l'emulazione. È come se avesse, all'interno delle proprie società, una gigantesca camera oscura del Male, in cui si riforniscono i suoi nemici. Da indagare. Senza trovare nessuna giustificazione, nessun senso di colpa. Non è il caso. Solo per capire, per proteggersi meglio o, quantomeno, tentare di farlo.