La riflessione

La competizione che uccide la cultura

In principio sono state le stellette che premiavano i migliori ristoranti, poi la mania di classificare tutto si è estesa ad ogni ambito, dal cinema alla scrittura - Ma non sempre ciò che svetta nelle «chart» è sinonimo di qualità e non sempre questa competizione è sana
Roberto Cotroneo
16.01.2020 06:00

Agli inizi degli anni Novanta, Alberto Arbasino, scrittore importante, quasi un classico vivente, noto per il suo snobismo, il suo distacco, mi disse una cosa: «Hai mai giudicato un ristorante dal numero di coperti che fa ogni sera?». Restai sorpreso: «cosa vuoi dire?». «Voglio dire che questa moda delle classifiche dei libri è insensata. Come fai a giudicare un libro dal numero di copie che vende?». Era elementare il ragionamento. Proprio in quegli anni gli inserti culturali dei giornali iniziavano a pubblicare ogni settimana i risultati dei libri più venduti, con delle proiezioni su campioni di librerie. Come si fa oggi con i sondaggi sulle percentuali dei partiti. Sembrava un gioco. Ma era la società che stava cambiando. Nessuno poteva immaginare da lì a poco che la cultura avrebbe subito un duro colpo da un’abitudine sociale che è connessa alle classifiche: l’idea del successo, del vincere e del perdere. La letteratura non dovrebbe avere un rapporto diretto con il successo. Per anni ci sono stati scrittori che il successo commerciale non lo hanno mai conosciuto, e sono stati autorevoli e letti in modo costante.

L’esclusività della tavola
Per anni, come diceva Arbasino, i ristoranti sono sempre stati scelti perché esclusivi. E per fare classifiche, per mettere qualcuno sul podio, si sono inventate le stellette, come le autorevolissime Michelin, o le forchette, i cucchiai, qualsiasi cosa che potesse dire: questo sì, questo meno, e questo no. Poi, piano piano, lo stesso pensiero è arrivato al cinema, e si sono inaugurate le stellette: cinque, quattro, una, da vedere, da non vedere, il botteghino, l’incasso, e tutto quanto ne consegue. Poi è arrivato il verdetto degli ascolti per le televisioni. Quanto farà Sanremo nel 2020? Un milione in più di Baglioni, o invece Amadeus perderà la sfida? E ancora: ci sono i sì e i no di X-Factor, che escludono un artista o lo promuovono. C’è il grembiule di Master Chef: «Togliti il grembiule! Sei fuori dalla cucina di Master Chef». E in tutti questi talent è sempre un profluvio di pianti. Uomini e donne, spesso adulti e persino anziano, che piangono perché passano il turno, che piangono perché devono uscire, che piangono perché il capo, lo Chef, li tratta con durezza o con sarcasmo. Ora, la letteratura, la poesia, la scrittura, sono cultura. Ed è cultura il cinema. E la musica, la canzone. Ed è cultura la cucina. Ed è tutto un gioco di idee, di contaminazioni, ma anche di pensieri. E di lentezze. Di attese, di ripensamenti, anche di guizzi, certo. Ma soprattutto di confronto, di discussione e distinguo. Ma i tempi della tv non permettono questo, inventano dei format che siano rapidi e spettacolari. Dove o si vince o si perde.

La letteratura non dovrebbe avere un rapporto diretto con il successo. Per anni ci sono stati scrittori che il successo commerciale non lo hanno mai conosciuto, e sono stati autorevoli e letti in modo costante

Più venduto uguale più valido?
I libri entrano in classifica. Chi sta al primo posto conta, chi sta all’ultimo non conta nulla. I ristoranti vengono giudicati con parametri rigidi. Il cinema ha gli incassi. Dell’ultimo film di Checco Zalone, Tolo Tolo, si è parlato ogni giorno quasi solo di quanto incassava: ha superato i 40, poi i 50, poi i 60 milioni. Sanremo sarà un successo se supererà di uno spettatore quello condotto l’anno precedente, al di là dei meriti. Ed è facile capire che stiamo massacrando più di una generazione. E non perché stiamo puntando tutto sulla competività ma perché abbiamo mutuato il modello del gladiatore che si rivolge all’imperatore dentro il Colosseo. L’imperatore è il mercato, e il mercato è il successo. Una competizione spettacolare che si basa solo sull’eliminazione.

Una logica sportiva
Tutto viene dallo sport. Ma è normale che, ad esempio nel calcio, ci siano i 90 minuti della partita, un risultato, una classifica: e c’è chi vince e c’è chi perde. E i giornalisti sportivi sanno che questo è troppo semplice, ed è per questo che da anni ormai fanno filosofia: tutti i programmi sportivi si sono trasformati in palestre di ermeneutica. Ovvero analisi, commento, considerazioni, indipendentemente dal risultato finale. Ma mentre lo sport cerca di liberarsi dalla logica del perdente e del vincente, perché sarebbe alla lunga noiosa, abbiamo esteso a qualsiasi altra cosa quel modello. Con che risultati? È ancora presto per dirlo. Ma certo con un mutamento dei comportamenti sociali. L’idea della mediazione, il ragionamento su quello che si è fatto, la capacità di lettura delle cose, il non volersi fermare alla soluzione più ovvia hanno lasciato il posto a un mantra contemporaneo: chi vince ha ragione. E vince chi ha successo. E ha successo chi raccoglie consenso. E il consenso è tutto. E questo, senza fare paragoni storici che saltano agli occhi a chiunque, è pericoloso e preoccupante.

Bertolt Brecht è l’autore di una celebre frase, che andrebbe scritta su tutti i muri, ovunque: «Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati». La cultura è il nostro futuro, la nostra ancora di salvezza, e non è una gara. È una risorsa. Un modo di capire e vivere il mondo. Deve essere insegnato, prima che sia troppo tardi.

Eco e le vittorie dei perdenti
Umberto Eco lo scrisse con quel gusto del paradosso che era tipicamente suo. Oggi la sua frase appare lontana dal pensiero dominante, ed è per questo che va ripetuta ai più giovani: «I perdenti», scrive Eco: «come gli autodidatti, hanno sempre conoscenze più vaste dei vincenti, se vuoi vincere devi sapere una cosa sola e non perdere tempo a saperle tutte,
il piacere dell’erudizione è riservato ai perdenti. Più cose uno sa, più le cose non gli sono andate per il verso giusto».
Questo pensiero oltre a spiegare che perdere è una risorsa, aggiunge una cosa: la superficialità del successo. L’idea che la vita sia solo un gioco. Dove si deve vincere per poi ripuntare tutto. Molti, quando perdono, dicono che sarà un insegnamento per il futuro. Ma in realtà riprodurranno sempre quel modello. E se smettessimo di pensare alla vita come a una competizione?