La fatica necessaria di vivere il reale

La storiella è divertente e piuttosto nota. È quella dei due giovani pesciolini che nuotano insieme e incontrano un pesce più anziano, mentre nuota nella direzione opposta, che gli fa un cenno di saluto e dice, «Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua?». I due giovani pesci abbozzano per semplice gentilezza e poi continuano a nuotare per un po’, finché uno dei due guarda l’altro e gli fa, «ma che cavolo è l’acqua?». Con questo piccolo apologo il tormentato scrittore americano David Foster Wallace aprì il suo memorabile discorso per il conferimento delle lauree al prestigioso Kenyon College in Ohio nel maggio del 2005. Da lucido distillatore di verità Wallace voleva soltanto spiegare da par suo che le realtà più ovvie, diffuse e importanti sono spesso quelle più difficili da vedere, da capire e da discutere. Quelle di cui avere consapevolezza insomma. Riletta oggi però quella breve parabola indirizzata a un centinaio di ragazzi frementi, emozionati e pronti a festeggiare l’ingresso formale nella vita adulta di una grande potenza occidentale assume in qualche modo il carattere della profezia, tracciando simbolicamente il confine con una nuova era: quella dell’anestesia digitale. Se Foster Wallace non fosse asceso troppo presto nell’empireo dei grandi della letteratura (è morto suicida nel 2008) sarebbe di certo preoccupato da quanto in questo primo scorcio di terzo millennio i suoi pesciolini (giovani e soprattutto meno giovani) siano sempre più numerosi e disorientati. Con rapidità e ingenuità impressionanti abbiamo delegato a piattaforme, reti sociali e fantomatiche fonti algoritmiche quella fatica quotidiana necessaria e in sostituibile di vivere il reale per acquisirne consapevolezza. E quello che è più grave è che lo abbiamo fatto per pigrizia e disinteresse, dimentichi che la nostra cultura, la cultura personale di ognuno di noi, non è questione di titoli accademici ma piuttosto il lavoro di una vita fatto di pura consapevolezza. Con conseguenze importanti anche sull’universo dell’informazione. Tutti vediamo come l’ordine digitale imperante tende a dematerializzare il mondo trasformandolo in informazione producendo (e qui la pandemia c’entra poco) un’epoca in cui gli esseri umani stanno perdendo la capacità di stabilire relazioni e contatti reali con «l’altro da sé», sia esso una persona, un oggetto o un fenomeno naturale, a favore di relazioni «immateriali» basate sullo scambio di informazione digitale. Distorcendo la nostra percezione del reale non siamo più capaci di distinguere il vero dal falso e anche le priorità dei problemi da risolvere, le ingiustizie da combattere, le strade da percorrere non siamo più in grado di coglierle ragionando da soli ma ci vengono imposte dall’esterno; qualche volta per interesse politico o commerciale, qualche volta per semplice e stupida malvagità. Insomma rincorriamo l’informazione, senza acquisire conoscenza. Ingurgitiamo di tutto, senza guadagnare consapevolezza.
In un saggio che sta per uscire anche in italiano da Einaudi (Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale) il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han descrive alla perfezione la necessità di tornare a rivolgere lo sguardo alle cose concrete, modeste e quotidiane prima che questa massa di dati irreali, precari e non verificabili prenda definitivamente il sopravvento sulla natura, sulla biologia, sulla geografia e sulla ragione del nostro esistere. Sudditi di una massa sfuggente e confusa di stimoli inutili e incapaci di andare oltre la superficie. Se la vera libertà è quella di imparare a pensare, consultare pigramente un telefonino per scoprire se in questo momento fuori piove o c’è il sole non farà di noi gli efficienti cittadini del futuro ma soltanto degli stupidi inconsapevoli.