L’editoriale

La ferita aperta di un’America fragile

Il presidente statunitense Joe Biden si è espresso ieri in occasione del primo anniversario dell’assalto al Congresso - Leggi l’editoriale di Gerardo Morina
© EPA/Drew Angerer
Gerardo Morina
Gerardo Morina
07.01.2022 06:00

In America non c’è posto per princìpi che non siano ispirati alla democrazia e alla Costituzione . Per quanto la nostra democrazia non cessi di essere fragile, occorre vigilare affinché il nostro Paese continui ad essere un faro di libertà e legittimità. Questa l’essenza del discorso pronunciato ieri da Capitol Hill a Washington dal presidente democratico Joe Biden in occasione del primo anniversario dell’assalto al Congresso perpetrato il 6 gennaio 2021 da facinorosi generici e da violenti seguaci di Donald Trump,convinti che la sconfitta subita alle urne dal loro presidente fosse frutto di una «grande menzogna». Ieri doveva essere anche la giornata di una conferenza stampa promessa dallo stesso Trump, ma l’ex- presidente ha fatto sapere di volerla rinviare al 15 gennaio. Il rinvio trae origine da due motivi. Il primo è che una conferenza stampa in concomitanza con il discorso del nemico Biden sarebbe stata troppo rischiosa e controproducente, segno che la gloriosa macchina da guerra repubblicana non è poi così compatta come sembra, soprattutto in vista delle elezioni di metà mandato del novembre di quest’anno, evento per il quale Trump sta mobilitando una nuova base elettorale composta dai NoVax e dalla destra religiosa. Il secondo motivo ha invece a che fare con la scomoda presenza di Liz Cheney (figlia di Dick Cheney, vicepresidente di George W. Bush) nella commissione d’inchiesta «bipartisan» istituita dal Congresso per far luce sulle responsabilità dello stesso Trump per i fatti del 6 gennaio di un anno fa. Liz Cheney non solo ha condannato gli eventi del 6 gennaio e il ruolo di istigatore che Trump ha avuto (è una dei soli dieci repubblicani che lo hanno fatto); ma è stata cooptata nella commissione che è oggi l’unica istituzione che cerca ancora la verità su quanto è successo, che Trump spera di veder sciolta nel caso, non improbabile, di una vittoria repubblicana nelle elezioni del prossimo novembre.

Per il resto, un anno dopo l’America rimane da una parte incredula e sgomenta mostrando una ferita che rimane aperta e dall’altra profondamente divisa su come giudicare l’insurrezione armata avvenuta dodici mesi fa a Capitol Hill, in cui la democrazia americana ha rischiato di soccombere. Naturale, quindi, che l’interpretazione postuma dei fatti si presti a considerazione diverse. Una di tali interpretazioni può derivare da quanto scrisse lo scrittore, saggista e Nobel per la letteratura 1981 Elias Canetti nel suo studio Massa e potere uscito nel 1960. In questo caso, oltre alle strategie proprie del potere trumpiano, l’insurrezione come generico fenomeno di massa non è aliena dal bisogno degli individui di liberarsi dalle distinzioni e dalle gerarchie della vita sociale. Ciò spiegherebbe perché un anno fa quella folla composta in gran parte da persone qualunque, di «everyday Americans», si trasformò in poche ore in una forza eversiva e in un’onda distruttrice.

Sì, ma il 6 gennaio 2021 rappresentò un vero e proprio tentativo di colpo di Stato o una semplice insurrezione? Su questo punto giornali, opinionisti e politici americani si dimostrano ampiamente divisi. Sta di fatto che quella data , relativa a fatti che non hanno precedenti nella storia statunitense, rimarrà indelebile. Interessante la versione che ne che dà Jason Stanley, professore di filosofia a Yale, per il quale l’estremismo di destra americano non è altro che «la tentazione di sciogliere il problema mai risolto del razzismo». D’altra parte, non va dimenticato, gli stessi padri fondatori degli Stati Uniti non nascosero di essere scettici sul valore immortale della democrazia pura, che per questo va ogni volta rinnovata, facendo tesoro anche delle insidie insite nelle periodiche involuzioni che l’accompagnano.

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