La fine del secolo americano?

di GERARDO MORINA - Mentre gli americani e con loro, di riflesso, il mondo intero s'interrogano su quale sarà il ruolo degli Stati Uniti con Donald Trump o Hillary Clinton alla Casa Bianca, è appena uscito in italiano (Il Mulino editore) il saggio di Joseph Nye dal titolo «Fine del secolo americano?», pubblicato originariamente in inglese più di un anno fa. Il punto interrogativo è d'obbligo perché l'intento di Nye, influente politologo di Harvard ed ex-sottosegretario alla Difesa ai tempi di Bill Clinton, intende mettere in dubbio le tesi che fanno capo ai cosiddetti declinisti, i quali, con regolare periodicità nel corso degli ultimi decenni, hanno espresso la convinzione dell'inesorabile, inevitabile, declino americano basato sull'eclissi ormai in atto di quella che è a tutt'oggi la principale superpotenza mondiale. Per questo il saggio di Nye è considerato dal prefatore dell'edizione italiana Angelo Panebianco (docente nel Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'univerità di Bologna, nonché editorialista di punta del Corriere della Sera) «un libro fuori dal coro, perché sostiene una tesi controcorrente, che solo pochi fra gli studiosi e gli osservatori della politica internazionale contemporanea sono pronti a sottoscrivere». Declino dell'egemonia americana? È vero solo in parte, sostiene Nye, asserendo che è impossibile negare, dati alla mano, che gli Stati Uniti siano ancora il Paese che mantiene un indiscutibile primato. Ugualmente, se si prende come parametro il declino «relativo» degli Stati Uniti di fronte alle potenze emergenti, nessuna di esse (neppure la Cina), sottolinea Nye, ha i numeri per svolgere, in un futuro prossimo, il ruolo che i teorici del declino assegnano loro. Lo studioso non nasconde sotto un tappeto i gravi problemi che affliggono la società americana e le sue istituzioni: le accresciute diseguaglianze sociali, i limiti del sistema di istruzione inferiore, le crescenti difficoltà di funzionamento della democrazia, nonché quelle inerenti alle élite che, anche negli Stati Uniti, devono oggi fare i conti con opinioni pubbliche molto più esigenti e condizionanti di un tempo. Tuttavia, sempre secondo Nye, non si tratta di problemi irrisolvibili perché sono compensati dalla vitalità di una società demograficamente giovane, con un sistema di istruzione superiore che resta eccellente e l'abbondanza di enormi risorse. Sarebbe pertanto limitativo usare come parametro di giudizio il solo potere economico. Si tratta, invece, di una questione di potere. Il potere è la capacità di influenzare gli altri affinché questi agiscano in base alle nostre aspettative. Vi sono, scrive Nye, tre modi per farlo: con la coercizione (il bastone); con i finanziamenti (la carota); con l'attrazione o la persuasione. Bastone e carota, compresa la forza miltare, sono forme di «hard power», attrazione e persuasione sono invece forme di «soft power», ovvero quel complesso di valori legati alla cultura, al costume, allo stile di vita, ai principi nazionali e internazionali, talmente attrattivi da suscitare ancora oggi per un determinato Paese (in questo caso gli Stati Uniti) persino tentativi di imitazione. Ma combinare risorse di «hard» e «soft power» in una brillante strategia (lo «smart power») non è sempre facile. Sotto questo profilo (il saggio non ne fa menzione perché fu originariamente pubblicato prima dell'inizio della campagna presidenziale USA, anche se Nye ha reso note le sue opinioni nel corso di successive interviste) l'adozione di tale strategia viene oggi fatta propria da Hillary Clinton, che punta ad un consolidamento del ruolo degli Stati Uniti nel mondo e alla coralità di azione legata al suo slogan «Per un'America più forte, ma insieme». Posizione globalista che contrasta nettamente con quella americanista del contendente repubblicano Donald Trump, basata sull'America First, protezionista in economia e isolazionista in politica estera. Il contrario, osserva Nye, di un potere «smart», nel senso di intelligente e persuasivo.