La forza di narrare l'indicibile

di MATTEO AIRAGHI - «La scrittura è un modo particolare di ricordare. È lei che mi ha restituito i genitori, i nonni e tutte le cose buone che lo scempio della Shoah mi ha sottratto. Scrivere è memoria, ispirazione, stimolo vitale. Non è sicuramente un'attività facile ma, nello stesso tempo, è anche un piacere, una gioia vera. E non si scrive solo per se stessi ma anche per parlare alle altre persone». Sono queste le frasi che usò per descrivere la sua attività di testimone e narratore Aharon Appelfeld durante una sua visita a Lugano qualche anno fa. E sono queste le prime che ci sono tornate in mente nei giorni scorsi apprendendo della scomparsa dell'autore israeliano dalla storia quasi incredibile. L'importanza di scrivere, di raccontare, di testimoniare e riuscire a «dire» l'indicibile perché nessuno possa negarlo, perché nessuno possa dire «io non sapevo», perché nessuno possa ripetere su chi ne è stato vittima un'altra volta lo stesso orrore. Ed ecco che quel piccolo grande uomo, che si era imposto di imparare l'ebraico già in età adulta per non adoperare, testimoniando la sua vicenda ben oltre l'umano, la stessa lingua degli assassini, seppe descrivere con quel sorriso disarmante e sereno la forza pacifica e nonviolenta della memoria, della parola scritta quale unico antidoto all'abominio. Senza mai dimenticare il significato del dolore e il rispetto per le persone vere che in quella tragedia, unica anche nel millenario percorso di sofferenza del popolo ebraico, hanno trovato la morte più assurda e inumana che potesse toccare in sorte ad un essere vivente. E ora che anche gli ultimi superstiti dell'Olocausto capaci di tramandare ciò che è stato ci stanno inesorabilmente lasciando, ancora più grande, importante e preziosa ci appare la loro eredità letteraria. Quei libri, quelle poesie, quei romanzi di testimonianza sono il più nobile e alto strumento di speranza e di resistenza contro quella che la giovane e attenta studiosa di Letteratura italiana all'Università di Zurigo Sibilla Destefani ha perfettamente definito con il concetto di «anticiviltà», termine con cui ha anche intitolato il suo recente e consigliatissimo saggio sul «naufragio dell'occidente nelle narrazioni della Shoah». Eppure, per fortuna, tanti sopravvissuti hanno riconosciuto nella scrittura il loro modo di trasformare ciò che videro in letteratura e in insegnamento per chi verrà dopo di noi, strappando fisicamente al dolore il modo per rendere la parola a ciò che non può essere detto, a ciò che non conosce una lingua adeguata per venire trasmesso; o che, se la trova, rischia a ogni momento lo scacco delle parole di fronte all'immane indicibilità di ciò che esse stesse devono esprimere e raccontare. Da Imre Kertész a Primo Levi, da Boris Pahor a Elie Wiesel, dal «nostro» Appelfeld a Jean Améry, fino alle voci di donne di Auschwitz, le Edith Bruck, le Charlotte Delbo, le Elisa Springer, o al «nichilismo» di Tadeusz Borowski, fino allo scavo psicoanalitico di Bruno Bettelheim o alla poesia di un Paul Celan. Ricordando quindi non le semplici, toccanti e imprescindibili testimonianze su carta dei deportati superstiti ma quelle di coloro che diverranno poi professionalmente scrittori e la cui opera assume pertanto uno specifico valore letterario. Senza dimenticare il conflitto che per tutta la vita lacerò chi volle e sentì l'obbligo di scriverne perché chi era sopravvissuto sapeva che su quell'esperienza non può esservi alcuna forma di letteratura, fatta eccezione per la memorialistica. Per Elie Wiesel il termine stesso di «letteratura dell'Olocausto» era un controsenso, poiché chi non lo ha vissuto non può nemmeno parlare dello sterminio. Altri intellettuali come ad esempio Primo Levi ed Edith Bruck, si dissero invece convinti assertori del fondamentale apporto che l'esperienza artistica può fornire non solo alla memoria, ma alla comprensione dell'essenza più profonda dei campi di sterminio per le distratte generazioni contemporanee e per quelle future. Forse mai capiremo la Shoah, perché bisogna essere non umani per capirla e concepirla completamente, globalmente. Le spiegazioni razionali, scientifiche, storiche si fermeranno sempre ad un punto, perché oltre vi è l'elemento malvagio, demoniaco, diabolico, e capire gli eventi fino in fondo, significherebbe contaminarsi nell'orrore del fascino della barbarie. Tuttavia, ed è giusto ricordarlo nell'imminenza della Giornata della Memoria, l'incapacità di capire non ci deve fermare a maggior ragione quando ci troviamo di fronte a qualcuno che banalizza, sottovaluta o peggio ancora, come purtroppo capita tutti i giorni, inneggia a quel male e a chi lo commise. In fondo la parola umana che rivela l'accaduto, ciò che è irriducibilmente umano, tentando l'incredibile, con la forza della creazione dell'arte e della cultura rimane ancora l'unica che può opporsi alla vuota ignoranza della sopraffazione e al nulla assoluto dello sterminio.