La fragilità nascosta del regime cinese

È un errore che commettiamo spesso: se in un regime dittatoriale non ci sono manifestazioni o altri segnali di protesta allora siamo portati a credere che la stabilità di quel regime non ha nulla da temere. Laddove faremmo meglio a sospettare, invece, che l’assenza di segnali di tal genere dipende assai più probabilmente da un’altra causa: e cioè dalla durezza della repressione che caratterizza il regime. È l’errore che commettiamo con la Cina. Forse per via dei tanti buoni affari che le aziende occidentali fanno con Pechino e della quantità di merci cinesi che importiamo e consumiamo ogni giorno, siamo convinti (o vogliamo convincerci?) che Xi Jinping sia fortissimo, che il suo potere sia più saldo che mai. È dubbio che sia così, invece. È più verosimile, infatti, l’ipotesi che il regime cinese viva nella costante paura che il piedistallo sul quale poggia possa improvvisamente incrinarsi e magari sgretolarsi non appena i suoi cittadini sappiano certe cose e comincino a porsi certi perché. È con una paura tale (e per quale altro motivo se no?) che si spiega il fatto che la Cina sia il Paese che detiene il record mondiale del numero dei giornalisti in galera. Quest’anno oltre duemila, come ci informa il Committee to Protect Journalists, il quale fornisce un altro dato interessante: molti di questi giornalisti sono stati privati della libertà dopo aver scritto in merito all’epidemia di Covid-19. Sarebbe interessante sapere perché: che cosa avevano scritto che non bisognava sapere? Non aveva scritto però nulla sulla Covid-19 Du Bin, un giornalista appena arrestato con l’imputazione di «comportamento litigioso e per aver seminato disordine» (mi chiedo se esista qualche altro Paese oltre la Cina il cui codice contempli un reato simile). In realtà la vera colpa di Du Bin sembra molto verosimilmente ben diversa. E cioè quella di aver scritto due libri. Uno sul massacro di piazza Tien An Men del 1989, che come si ricorderà costò la vita e secoli di galera a migliaia di giovani cinesi che manifestavano per la democrazia (avendo tra l’altro pubblicato il libro a Taiwan si è già fatto un mese di prigione), e un secondo nel quale l’autore ricostruisce un agghiacciante episodio della guerra civile degli anni Quaranta nel corso della quale l’assedio posto dall’Esercito rosso ad un città occupata dai nazionalisti fece la bellezza di oltre 150 mila vittime tra la popolazione civile.
Il che ci porta direttamente ad un altro genere di considerazione, che riguarda l’importanza cruciale che ha sempre avuto la storia per i regimi dittatoriali. Questi regimi, infatti, specie se si tratta di regimi con un forte carattere ideologico come quelli fascisti o comunisti – hanno un bisogno vitale di credere e di far credere due cose. Innanzi tutto che la loro storia sia stata una storia costellata solo di eroismi e di buone azioni. Presentatisi come la soluzione di tutti i mali sono convinti che la propria legittimazione si fonda innnanzitutto sull’infallibilità (il partito o il duce hanno sempre ragione). Ammettere un errore significherebbe perdere l’aureola dell’eccezionalità. Solo così si spiega, ad esempio, il culto di Mao ancora vigente in Cina, nonostante sia accertato l’esito micidiale di almeno due decisioni - il «grande balzo in avanti» e la «rivoluzione culturale» - prese dal Grande Timoniere: in preda nel primo caso ad un vero e proprio delirio di onnipotenza, nel secondo a un selvaggio furore epurativo. Due decisioni cui si deve un totale di qualche decina di milioni di vittime (decine di milioni!).
Il secondo punto a cui i regimi totalitari non possono rinunciare in tema di storia è l’idea che prima del loro avvento il passato sia stato un cumulo di orribili nefandezze. Prima che essi portassero la luce, insomma, dovevano per forza regnare le tenebre. Un esempio da manuale di questo punto è l’immagine che per decenni l’Europa e il mondo si sono fatti della Russia zarista, grazie alla propaganda promossa da Mosca dopo la Rivoluzione del 1917 e alla sua capacità d’influenzare gli ambienti intellettuali. Una propaganda che ha conseguito il risultato straordinario e insieme paradossale di far credere che per l’umanità avesse rappresentato una grande conquista il fatto che un regime come quello sovietico - specialista in deportazioni di interi popoli, creatore di uno dei più efficaci sistemi di repressione omicida mai visti, le cui vittime si calcolano a milioni - avesse posto fino a un regime come quello degli zar, che non era certo il paese di Bengodi ma dove ogni anno le condanne a morte si contavano solitamente sulle punte di una mano, si scrivevano libri contro il Governo, e se si era spediti in Siberia spesso ci si poteva portare dietro la famiglia.