La guerra a colpi di fake news

DI FERRUCCIO DE BORTOLI - Dobbiamo domandarci che cosa sarebbe accaduto nella crisi dei missili di Cuba, nel 1962, se in quei tredici giorni decisivi per la conservazione della pace vi fossero stati i social network. L'essenziale diplomazia segreta, che scongiurò il conflitto nucleare fra l'America di Kennedy e l'Unione Sovietica di Kruscev, sarebbe andata in frantumi. Meglio non chiederselo. Quello che colpisce nella necessaria risposta occidentale all'uso delle armi chimiche da parte del regime di Assad è il disinvolto impiego di altri "strumenti bellici". Ovvero le informazioni che circolano sulla Rete, compresi gli spericolati tweet di Donald Trump. Il presidente degli Stati Uniti ha preannunciato sul celebre social network la rappresaglia avviata, insieme a francesi e inglesi, nella notte tra venerdì e sabato. Abbiamo qualche dubbio che questa sia una modalità di comunicazione appropriata da parte del capo della più grande potenza militare ed economica del mondo. L'analista americano Robert Kaplan ha notato che mai, prima del bombardamento alleato dei giorni scorsi, vi era stato un così massiccio fiorire di indiscrezioni, spiegazioni, avvertimenti, depistaggi. Kaplan lo definisce "l'effetto di cyberdisruption". "La battaglia dell'informazione diventa quasi più importante del conflitto sul campo". La sensazione a mente fredda è che Trump abbia voluto intervenire in Siria con un'azione dimostrativa, preoccupandosi di limitare gli effetti negativi sulle relazioni con Mosca, peraltro avvertita in anticipo. Nessuna sorpresa, nemmeno sugli obiettivi da colpire, di cui si era parlato persino sulla stampa. Un centinaio di missili lanciati in poche ore "senza l'intenzione di provocare la caduta del regime di Assad", come si è premurata di dire Theresa May. Una dittatura accusata di usare le armi chimiche contro il suo popolo, della quale bisognerebbe desiderare la fine, se si fosse un po' più coerenti. Trump si chiesto come Putin possa appoggiare un "criminale" come Assad. Appunto. Non c' dubbio che Damasco abbia avuto, e forse abbia ancora oggi, armi chimiche. E che sia interesse della comunità occidentale difendere principi di civiltà e valori universali. Ma perché questo debba avvenire attraverso falsi pretesti o spiegazioni incomplete, se non fuorvianti, è già meno comprensibile. "Mission accomplished" stato detto in questa occasione come nel 2003, subito dopo l'intervento americano in Iraq. La missione era tutt'altro che compiuta. E non conclusa nemmeno questa volta. Nel 2013, dopo che Obama aveva solo minacciato un bombardamento in Siria e si era dato vita a un meccanismo di supervisione internazionale, l'allora segretario di Stato, John Kerry, disse che l'arsenale chimico di Assad era stato distrutto al 100 per cento. Non era vero. Ed è legittimo dubitare che le dotazioni siano state - come affermato nei commenti ufficiali - del tutto smantellate nell'ultima operazione. L'episodio che nel 2013 scatenò la reazione occidentale venne ampiamente manipolato per fare emergere la responsabilità diretta di Assad. Ne parla Marcello Foa nel suo libro "Gli stregoni della notizia" (Guerini). La guerra in Iraq, dieci anni prima, venne giustificata da prove risultate poi false. Si ricorderà l'allora segretario di Stato Powell agitare in conferenza stampa una provetta che avrebbe dovuto dimostrare il possesso, da parte di Saddam, di armi batteriologiche. E gli esempi potrebbero continuare. La guerra si fa anche con le false informazioni. Da sempre. E qualche volta le bugie sono necessarie e a buon fine. Ma diventa assai complesso poi prendersela con i troll e le fake news fabbricate dal Cremlino allo scopo di influenzare le opinioni pubbliche occidentali. E si finisce per fornire argomenti utili ai peggiori nemici delle democrazie. Sul piano dei rapporti geopolitici, l'operazione dello scorso weekend ha avuto comunque il merito di dimostrare che le forze occidentali non assistono impassibili all'espansione dell'influenza di Putin nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. Sono preoccupate dal disegno di egemonia regionale di Teheran e comprendono le preoccupazioni di Israele, cui si avvicina, per i propri interessi, l'Arabia Saudita. La Turchia, almeno questa volta, sembra essere tornata nei ranghi propri di un membro effettivo della Nato. L'Europa si è confermata silente. Ma gli Stati Uniti non possono non interrogarsi sulla perdita del loro peso specifico in un'area cruciale per gli equilibri mondiali. Questa preoccupazione, purtroppo, non frutto di una fake news e nemmeno della manipolazione digitale dei fatti.