Editoriale

La guida incerta dell’Unione europea

La prima sfida dell’UE, che tra un mese rinnoverà il proprio Parlamento, è quella di portare al voto almeno la maggioranza degli elettori
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
06.05.2024 06:00

La prima sfida dell’Unione europea, che tra un mese rinnoverà il proprio Parlamento, è quella di portare al voto almeno la maggioranza degli elettori. Nel 2019 l’affluenza fu del 50,6 per cento. In recupero, rispetto all’astensionismo degli anni ’90, grazie soprattutto ai giovani. Nel 1979, quando l’elezione divenne diretta, votò il 62 per cento dei cittadini dei nove membri di allora (e c’erano anche i britannici). In Italia l’85 per cento. La campagna elettorale nei 27 Paesi membri ha alcuni tratti comuni e non poche curiosità, come per esempio una posizione iperpacifista che unisce le estreme (e non dispiace a Putin) mentre si parla della necessità di un esercito comune. Il voto europeo si trasforma spesso in una verifica dei rapporti di forza interni.

Una sorta di mid term - le elezioni americane a metà mandato presidenziale - all’europea. Ma c’è anche la tendenza a considerare le schede nell’urna un po’ in libera uscita. Come se esistesse un doppio standard politico tra il proprio Paese e l’Unione europea. In Italia il Partito comunista superò, nel 1984, senza conseguenze, la Democrazia cristiana sull’onda dell’emozione collettiva per la morte di Enrico Berlinguer. Matteo Renzi nel 2014 ebbe un successo clamoroso con il 41 per cento, subito disperso. La Lega di Matteo Salvini trionfò nel 2019 con il 33 per cento. Oggi un miraggio. Il test più interessante è saggiare il consenso del Rassemblement National, che per i sondaggi si avvia ad essere il gruppo nazionale più forte nell’assemblea di Strasburgo. Sarà guidato, per l’occasione, dal delfino di Marine Le Pen, il ventottenne Jordan Bardella, che si è appena confrontato in tv con la capolista macroniana Valérie Hayer. Il presidente francese, in una recente intervista all’Economist, ha detto che l’Unione così com’è non va da nessuna parte. O si riforma e si rafforza oppure è destinata alla irrilevanza. Macron, con il suo movimento Renew, è il riferimento dei liberali europei, oggi alleati nella maggioranza del Parlamento europeo con i Popolari e i Socialisti, la cui tenuta è fondamentale per salvaguardare gli attuali equilibri politici. Si profila un testa a testa tra Renew e i Conservatori e Riformisti (Ecr) guidati dalla premier italiana Giorgia Meloni. Curioso, per non dir altro, che i tre partiti della maggioranza italiana abbiano tre appartenenze europee diverse e persino contrapposte. I Popolari, di cui fa parte Forza Italia, mai si alleerebbero con Identità e Democrazia che vede la Lega alleata con Alternative für Deutschland. Meloni ha più volte affermato che mai appoggerà una coalizione europea con i Socialisti. Ma come si comporterà se i voti di Ecr saranno decisivi per la riconferma di Ursula von de Leyen, Spitzenkandidat dei Popolari, con la quale ha un ottimo rapporto personale? L’Italia non può permettersi di essere schiacciata sulla destra sovranista europea.

Lo capirono anche i Cinquestelle che alla fine votarono, quando erano al governo con Conte nel 2019, per l’attuale presidente della Comissione europea. E sarebbe assai curioso se Macron - che è il leader più distante dal centrodestra italiano e non ama la von der Leyen - promuovesse la candidatura di Mario Draghi. Un dilemma infernale per Meloni. Ma la politica europea può essere diversa, anche molto, da quella nazionale. Un doppio standard che consente spesso di smentire in patria, proprio per non perdere voti, gli impegni europei. E dare la colpa a Bruxelles o a Strasburgo per le decisioni più sofferte e impopolari. Il doppio standard è anche una doppia morale e forse è questo il principale ostacolo a un’Unione più forte e federale.