La natura non è una dea arrabbiata

di GIANCARLO DILLENA - Mentre Irene spazzava con la sua furia New York e la East Coast, abbiamo ancora una volta dovuto risentire tutto l?arsenale delle considerazioni sul «degrado del clima» causato dall?uomo quale ragione delle catastrofi naturali che lo colpiscono. Se poi fra gli stessi scienziati c?era chi ricordava, correttamente, che la stessa Grande Mela è già stata investita da uragani analoghi nel XIX secolo – quando di effetto serra ancora non era neppure il caso di parlare – si glissava rapidamente sul «dettaglio», per tornare a interpretazioni più «globali» e suggestive.Credo che questo non sia semplicemente dovuto a un approccio ideologico catastrofista (anche se certamente questo fa la sua parte). Come credo che la questione dei cambiamenti climatici non vada banalizzata ma seriamente approfondita sul piano scientifico, in tutta la sua complessità. Il che è però assai lontano dallo stabilire sommarie relazioni dirette di causa ed effetto tra attività umana e singoli eventi, come ha fatto qualcuno con Irene e si tornerà puntualmente a fare con il prossimo uragano. Ed ancora più lontano è dall?idea, che plana come un?ombra su questi eventi, di una natura che pare volersi «vendicare» dell?arroganza e del disprezzo con cui la tratterebbe oggi l?uomo. Questa altro non è che l?immagine ancestrale della natura come divinità, dotata di sentimenti e volontà propri. Una divinità da trattare con timore e rispetto, altrimenti si arrabbia e sono guai. E in questa visione si inserisce, non a caso, l?idea del sacrificio per placare la furia della dea. In termini odierni, se noi sacrificheremo alla Dea Natura parte del nostro modo di vivere, in particolare lo sviluppo, la sua ira si placherà e ci risparmierà sciagure e lutti.La questione è da rincondurre effettivamente all?uomo. Ma più che alle sue «colpe», presunte o reali, nei confronti della natura, a quel mix ambivalente fra le sue paure ataviche e il suo altrettanto atavico antropocentrismo. Da sempre le une alimentano l?altro e viceversa, in una spirale che genera mitologie volte a dare un senso al mondo che lo circonda e nel contempo di stabilire con esso un rapporto che valorizzi l?uomo stesso come elemento centrale. Il che significa ricondurre tutto, nel bene e nel male, a se stesso e ai propri comportamenti. In questa chiave tra il contadino mesopotamico che spiegava il cattivo raccolto con l?ira della divinità nei suoi confronti e il moderno pan-ambientalista che riconduce l?estate troppo calda (o troppo fredda) alla motorizzazione, la distanza è assai minore di quel che potrebbe sembrare. Alla fine tutto dipende dal comportamento umano: se cambia nel senso auspicato dalla divinità (o da chi ne fa le veci) tutto può essere risolto! Altrimenti si corre al disastro. E se invece cambiassimo davvero approccio? Se accettassimo l?idea che la natura ha comunque una forza immensamente superiore alla nostra e che obbedisce a regole e disegni che siamo ancora assai lungi dal comprendere? Se rovesciassimo il problema, partendo non da ciò che fa o crediamo di far fare alla natura, ma dalla nostra vulnerabilità e da come la gestiamo? Se accettassimo – umilmente – di costruire passo dopo passo, esperienza dopo esperienza, disastro dopo disastro argini sempre più efficaci per contenere i danni, senza con questo illuderci di poter trovare un giorno la soluzione-miracolo che ci metta al riparo da tutto? Se ci rendessimo davvero conto che il miglioramento del comfort di vita che ci offre lo sviluppo tecnologico ha comunque un prezzo, segnatamente in termini di vulnerabilità? E che esso può essere ridotto da un simmetrico sviluppo dei mezzi di protezione, delle strategie insediative, dei comportamenti più efficaci in termini di benessere nella sicurezza (anche ambientale); ma che ciò chiede intelligenza, lucidità, ponderazione e capacità di scelte da compiersi pure passo dopo passo? Ciò che è successo a New York, icona ed archetipo della moderna società urbana avanzata, può portare acqua al mulino di visioni diverse. Se davvero la natura fosse dotata di emozioni e volontà proprie (chi può escluderlo a priori?), il fatto di prendersela proprio con la Grande Mela sarebbe carico di significati e moniti simbolici. Noi, più modestamente convinti che fra le molte cose che ci sfuggono ci sono anche le ragioni di eventi come questi, crediamo che la cosa migliore da fare sia di imparare il massimo possibile da ogni esperienza. Facendo in modo che la prossima volta che capiterà – poiché che ci sarà una prossima volta è una realistica certezza – l?uomo sia un po? più pronto ad affrontare le forze della natura, salvando quante più vite possibile e contenendo i danni a quanto è davvero inevitabile. Sarebbe già un bel risultato, per quel piccolo mammifero intelligente chiamato uomo che abita quel piccolo pianeta chiamato Terra.