La realtà virtuale di Donald Trump

La domanda di chi ha seguito da vicino la «convention» teletrasmessa dei Repubblicani conclusasi ieri è una sola: ma in quale realtà vive il partito di Trump? Risposta: nella propria, ovvero in quella realtà alternativa che fonde realtà virtuale, «reality show» e culto della personalità. Il risultato è la rappresentazione di due Americhe opposte che però non esistono. Nella prima, una descrizione certamente non imparziale della realtà nell’era di Trump in cui si afferma che il coronavirus è stato domato dalla leadership presidenziale, l’economia è tornata a livelli pre-pandemici e l’attuale presidente non è che una figura empatica che sostiene l’immigrazione e che mai cavalcherebbe a proprio favore gli episodi di razzismo che stanno dilagando negli Stati Uniti. Nella seconda America ecco la descrizione da parte repubblicana di un’eventuale presidenza Biden ( il candidato democratico) nel corso della quale verrebbero ridotti i fondi a disposizione delle forze dell’ordine, aumentate le tasse, legalizzato l’infanticidio (leggi aborto), distrutti i sobborghi, mentre le città americane (in gran parte in mano ai democratici) vedrebbero aumentare i loro indici di violenza. Nessuno insomma potrà considerarsi al sicuro se Biden, definito un cavallo di Troia del socialismo, diventerà presidente al posto di Trump, il quale dimostra fin d’ora di voler giocare due carte elettorali: l’attenzione alla formula «legge e ordine» per la tutela dei cittadini e la forte restrizione di ogni tipo di immigrazione. Concetti non certo nuovi, si dirà. Il motivo è che il Partito repubblicano non ha riassunto la sua «convention» in un programma dettagliato di punti come hanno fatto gli avversari democratici la scorsa settimana emanando un documento di ben 91 pagine, ma si è limitato a un testo di una paginetta che non contiene nuovi spunti, ma mira a vivere di rendita sul mantenimento degli obiettivi lanciati da Trump nel 2016 senza peraltro metterli mai neanche minimamente in discussione. Solamente abbozzate tre linee guida per i prossimi quattro anni in caso di rielezione del presidente: the Donald promette di creare 10 milioni di posti di lavoro in 10 mesi e far nascere un milione di imprese. Sui commerci, meno globalizzazione e più accordi bilaterali. Contro il coronavirus, poi, dopo la fallimentare strategia degli ultimi mesi, Trump garantisce un vaccino entro il 2020, ha dato l’ok a utilizzare il plasma dei guariti per curare i malati. Nel caso della politica estera, continuerà a non valere nessuno sconto al leader cinese Xi Jinping e il presidente assicura che non ci saranno contratti federali per le aziende che praticano l’«outsourcing» in Cina.
La «convention» repubblicana è così risultata prevalentemente un parlarsi addosso tra amici che la pensano allo stesso modo e senza bisogno di convincere altri. Il capo in persona non è apparso mai discutibile e per questo descritto da chi si è avvicendato sul palco in una luce sempre positiva. Non importa se quanto affermato dal presidente Trump all’inizio della «convention» come durante il discorso finale di giovedì notte americana apparisse come ampiamente contestabile di fronte ad un controllo fattuale e se la distorsione di qualche verità operata dal presidente avrebbe fatto inorridire ex-presidenti campioni di rettitudine come Washington, Lincoln e Truman. Trump ha affrontato il problema della sua personale narrazione dei fatti semplicemente con la tecnica della saturazione, ovvero con una pioggia di informazioni, non importa se infondate, che la gente comune non ha tempo né modo di verificare. The Donald si è preso la mano libera anche su un altro versante: la legge di nome Hatch Act, che vieta a un presidente di usare risorse, strutture, persone e atti di governo per essere rieletto. Tali norme sono state violate più volte, ad esempio mettendo in scena, durante la «convention» una cerimonia di naturalizzazione di immigrati officiata da un ministro o il messaggio trasmesso da Gerusalemme dal capo del Dipartimento di Stato Mike Pompeo. Inoltre, se vale pur sempre il principio che ogni presidenziale americana si vince al centro, the Donald non ha mostrato di armarsi di tale scrupolo, pur augurandosi che qualche democratico possa cambiare casacca. Se il centro non riveste dunque per Trump un particolare interesse, non altrettanto si può dire della destra del partito, verso la quale c’è una confluenza di intenti. Come dire che il Partito repubblicano conserva fortemente il marchio Trump, evidente in una posizione perennemente da outsider, attenta a presentarsi insofferente di fronte all’establishment e proponendosi come vicino in particolare alla classe medio-bassa e in prevalenza bianca, a tutti coloro che , vittime della lunga crisi del settore manifatturiero e traditi dalla globalizzazione, aspirano a riconquistare i loro posti di lavoro, con la netta contrapposizione tra città e campagna. In questo bacino elettorale Trump ha fatto breccia vincendo nel 2016 la Casa Bianca,ma c’è da essere sicuri che lo stesso si ripeterà il prossimo novembre? Vengono dubbi se si considera che allora il messaggio era nuovo e non ancora sperimentato, mentre oggi i transfughi non mancano e per giunta in quattro anni è cambiata la geografia elettorale degli Stati Uniti. Il punto sarà soprattutto constatare a novembre se il Partito repubblicano storico di approccio moderato, il partito che fino al 2016 si fregiava di incarnare a suo modo la tradizione americana di ricambio, rivoluzione, libertà e indipendenza, mostri segni di rinascita o se, come ampiamente probabile, risulti ancora una volta fagocitato dal segno monocolore di the Donald. C’è dopo tutto chi ancora vive nella tradizione di Bush padre, colui che nel 1989, prefigurava con la sua presidenza «un’America più cortese e delicata» («A kinder, gentler nation»). Oggi queste parole sembrano vecchie di un secolo e si perdono nel mare irrequieto di un’America ancora fortemente divisa.