La scelta di non voltare la faccia

“I giusti sono quelli che non hanno voltato la faccia dall’altra parte”. Sembra quasi banale la definizione che Liliana Segre dà delle persone che, 75 anni fa come oggi, hanno salvato e continuano a salvare vite umane. Perché la differenza tra il gesto di distogliere lo sguardo e quello di guardare in faccia chi era o è in difficoltà comporta conseguenze potenzialmente vertiginose, spesso tragiche. “Col suo atteggiamento”, ci diceva nei giorni scorsi la senatrice italiana, “il funzionario che ha respinto me, mio papà e i due cugini di mia nonna dalla frontiera di Arzo nel ’43, di fatto ha decretato la morte di tre persone”. Come dire che non è necessario l’odio per commettere nefandezze, basta e avanza l’indifferenza. Anzi, peggio: a volte basta fare il proprio dovere formale. Nel caso specifico, l’applicazione pedissequa e acritica di regole perfettamente codificate nella loro fredda disumanità.
Era facile, in altre parole, voltare la faccia perché avevi l’alibi del potere dalla tua parte. Così Liliana Segre, ha spiegato ieri il consigliere di Stato Manuele Bertoli, «è stata vittima di leggi sbagliate. Anche delle nostre, che non hanno saputo dare accoglienza». Facile come il quieto vivere, quindi, ma iniquo. E sembrerebbe altrettanto facile, perfino ipocrita, dalla comoda posizione di chi vive in tempo di pace, puntare il dito contro il capo posto di Arzo che non ebbe quel guizzo di coscienza, di incoscienza e di coraggio che gli avrebbe permesso di andare controcorrente, di disobbedire ai suoi superiori e alla stessa politica di Berna. Quanti di noi, nella stessa situazione di allora, avrebbero salvato Liliana, suo padre e i suoi parenti sfidando le leggi e mettendo a rischio se stessi?
Ciò detto non solo è giusta, ma doverosa la richiesta di perdono a chi patì l’indifferenza (che sotto sotto fu viltà) di alcuni nostri avi. Perché esistono leggi più importanti di quelle degli Stati. Sono quelle iscritte nel nostro cuore, capace di riconoscere e respingere il male anche quando è sdoganato dalle più alte autorità.
Le scuse di Manuele Bertoli a distanza di 75 anni da quei fatti non possono riportare in vita i parenti della signora Segre, ma rappresentano qualcosa di più di un tardivo risarcimento morale nei suoi confronti. Sono un gesto che – se si vuole autentico – implica un impegno nei confronti del presente e del futuro. Come dire: non lo faremo più, non distoglieremo più lo sguardo da chi scappa dalle persecuzioni.
Sarà davvero possibile? A giudicare dai venti contrari che soffiano sul volto di molti fuggiaschi, non è affatto detto, come attestano le opposte politiche e le accese discussioni attorno all’afflusso di massa dei migranti di oggi alle frontiere dell’Europa. E lo diciamo senza voler stabilire uguaglianze forzate tra i perseguitati dai nazisti degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso e i fuggitivi di oggi, alcuni dei quali rischiano ancora la pelle, altri no.
In ogni caso, da qui in avanti, l’intenzione dichiarata al massimo livello delle autorità cantonali di non farsi risucchiare nel gorgo dell’indifferenza non potrà essere bellamente ignorata. O non dovrebbe.
Ci si può poi interrogare sul senso dei “mea culpa” dei figli pronunciato in nome dei padri che hanno sbagliato e che non ci sono più. È giusto che siano i discendenti a chinare il capo per le malefatte di chi li ha preceduti?
Sì, è giusto. Perché se nessuno si incarica di chiedere scusa ai sopravvissuti degli stermini è come se il loro sacrificio non fosse servito a nulla. Chiediamo scusa oggi per gli errori di ieri perché se vogliamo che non si replichino domani le vecchie ferite vanno rimarginate, non ignorate. Per non aggiungere all’indifferenza di ieri quella di oggi. Chi ha sofferto ha bisogno di vedere riconosciute le colpe di chi l’ha fatto soffrire. Non per vendetta, non per vittimismo. Per giustizia, per quel principio che cerca di riequilibrare il torto con la ragione.
Ed è giusto che a chiedere scusa siano le autorità politiche: sono state le scelte politiche di allora ad aver permesso, se non proprio determinato, quei terribili sbagli. Nessun altro ente, nessun individuo, potrebbe farlo al loro posto. Non è quindi il caso di chiedersi se sia giusto o sbagliato che l’autorità cantonale si sia scusata per un’ingiuria commessa da un funzionario delle guardie di confine, un corpo di sicurezza che dipende da Berna. Toccava a loro farlo o toccava a noi? Formalmente toccava alla Confederazione, come ha ammesso lo stesso Bertoli: «So che questo compito spetterebbe alle autorità federali».
Ma di errori nei confronti di Liana Segre e dei suoi cari morti per colpa di chi voltò la faccia in nome del rispetto formale delle leggi ne abbiamo già fatti abbastanza per stare a recriminare su una scelta dovuta e non più rinviabile.