La scrittura conquista minacciata

di MATTEO AIRAGHI - Alle volte ci sono conquiste culturali che, seppur ottenute con impegno e fatica magari dopo lotte durate secoli e generazioni, ci sembrano talmente scontate, ovvie e acquisite da sembrare importanti solo quando scopriamo che in realtà sono in pericolo. Così può forse fare scalpore, specialmente tra coloro che non hanno legami stretti con ragazzi in età scolastica, l'allarme che si leva con preoccupante insistenza sul dilagare della disgrafia tra i giovani e sulla rapida (sono bastate in fondo un paio di generazioni di studenti) perdita della, solo in apparenza semplice, capacità di scrivere in corsivo. Sì, avete capito benissimo, nell'opulento e acculturato Occidente, le nuove generazioni non sanno quasi più scrivere «a mano», come conseguenza, e ti pareva, dell'utilizzo esclusivo delle tastiere dei computer e degli smartphone. E quel che è peggio i docenti, quasi rassegnati all'evidenza, stentano ad insegnare l'importanza di quella tecnica inventata secoli fa per «scrivere di corsa», cioè senza staccare la mano dal foglio, tecnica che, non sembri un'esagerazione, ha fatto la storia della nostra civiltà diventando persino un simbolo di emancipazione sociale e di accesso popolare alla conoscenza, e si accontentano, quando va bene, di striminziti e incerti «stampatelli». Certo, i più cinici e smaliziati integrati digitali magari alzando un sopracciglio mentre trastullano il loro fido «device» potrebbero eccepire che, «va beh, pazienza, siamo nel mezzo di una rivoluzione epocale, oggi è importante saper scrivere con altri mezzi che non siano la matita o la penna biro e dunque non è proprio il caso di farne un dramma». Forse. Ma a quanto pare qui non si tratta soltanto della nostalgia per il romanticismo deamicisiano del «Piccolo scrivano fiorentino» o per l'immortale scena della dettatura della lettera di «Totò Peppino e la... Malafemmina» che al di là dell'ironia insuperabile raccontava anche della fatica fisica per arrivare a padroneggiare la scrittura, sconfiggendo millenni di endemico analfabetismo. Anzi. Qui, e lo spiegava bene l'esperto terapista della psicomotricità dell'età evolutiva Claudio Ambrosini in un recente articolo sul Corriere della Sera, si parla di una perdita che implica gravi ricadute per le future generazioni sui processi cognitivi ed evolutivi poiché «la scrittura corsiva intesa unicamente nella sua funzione esecutivo-motoria non è uno strumento del pensiero, è essa stessa, nella sua fase di apprendimento, pensiero». Così anche nei Paesi che si erano spinti più in là, come la Finlandia, il Canada o alcuni Stati degli USA, abolendo di fatto l'inutile, noioso e passatista insegnamento della scrittura corsiva si comincia a fare marcia indietro indicendo addirittura delle «campagne per il corsivo» che mirano al rilancio della penna e della matita nelle scuole primarie. Perché ormai tutti gli psicologi, compresi quelli che ritengono «troppo difficile» insegnare il corsivo, sono concordi nel ritenere che imparare a scrivere in questo modo sia comunque un passaggio cognitivo essenziale. Poiché consente di meglio imparare a coordinare alcune facoltà – quella visivo-spaziale, quella di controllo sul movimento – e di meglio connetterle a un suono, a un concetto, quindi a un'astrazione. Insomma il caro, vecchio corsivo aiuta a legare le idee, ne trasmette meglio i significati, aiuta a pensare, a memorizzare. Mentre invece utilizzare soltanto lo stampatello rende alla fine più faticosa anche la fluidità di lettura, cioè la capacità di sintesi. «Il corsivo, encefalogramma dell'anima»: questo l'affascinante titolo di un recente saggio scritto dallo psicologo Giuseppe Rescaldina e dalla grafologa Irene Bertoglio, in cui si sostiene la tesi che parlare di scrittura manuale nell'era dei tablet non è un discorso nostalgico. Il cervello non apprende soltanto se immagazziniamo concetti da un punto di vista meramente linguistico e mentale, ma apprende se permettiamo alle mani di muoversi. Imparare a scrivere in corsivo ha da sempre permesso la sequenzialità e la linearità del pensiero; oggi, epoca in cui si scrive soprattutto con la tastiera, si assiste, guarda caso, ad un grave e rapido impoverimento delle facoltà mentali. Imparare a scrivere, dunque, serve innanzi tutto per imparare a pensare, con buona pace di tutti coloro che sognano un futuro fatto soltanto di simpatici emoticons. «Rem tene, verba sequentur»: la locuzione latina attribuita a Marco Porcio Catone ci ricorda che se sei padrone di un argomento le parole seguiranno. Forse oggi, asciugandosi il sudore col fazzolettone, sarebbe d'accordo anche Peppino De Filippo.