La sicurezza dei cittadini e il controllo dei politici

Dalla sconfitta di misura con il no al 50,3% nel 2020, alla vittoria di ieri con il sì al 52,4%. È curioso constatare come votare e rivotare sul medesimo oggetto abbia prodotto un ribaltamento dei fronti sull’iniziativa «Le vittime di aggressioni non devono pagare i costi di una legittima difesa». Un risultato che ha dato ragione e soddisfazione al «Guastafeste» Giorgio Ghiringhelli che da oggi si è autoproclamato pensionato: dopo 25 anni trascorsi a combattere al fronte (sui diritti popolari, il divieto del burqa e le tariffe degli avvocati-notai) ha deciso di ritirarsi. E lo ha fatto secondo il suo stile, di colui che non molla mai l’osso. Un anno fa non aveva digerito l’opuscolo informativo del Consiglio di Stato, appellandosi al Tribunale federale che gli aveva dato ragione tacciando quel testo informativo come «poco oggettivo e tendenzioso». Davvero una figuraccia per l’Esecutivo, costretto a richiamare i cittadini alle urne. Una situazione più unica che rara e decisamente imbarazzante.
Su questo tema c’era grande incertezza, se non altro perché nessuno era in grado di prevedere la reazione popolare di fronte alla necessità di votare sulla credibilità del Governo sconfessato dall’Alta corte, ma soprattutto sull’effetto pandemia che, ci hanno detto un po’ alla nausea, «cambierà tutto e tutti». Ebbene, sarà anche così, ma i fatti ci dicono che in materia di sicurezza i cittadini non sono disposti ad alcun compromesso e non tollerano che, se costretti a difendersi da chi mette in pericolo la loro incolumità, si trovino costretti a subire i costi della «legittima difesa», mentre l’aggressore nell’ordinamento legale pre voto appariva come maggiormente tutelato. La volontà dei cittadini andrà applicata, ma la modifica della legge non va interpretata come un diritto universale alla «giustizia fai da te, tanto poi lo Stato pagherà». Solo l’esperienza ci dirà quali saranno gli effetti di questo passo che intende proteggere maggiormente chi viene aggredito e non dovrà spingerlo a reazioni più frequenti e più violente.
Se sulle botte non c’è compromesso che tenga, sulle spese ai cittadini va bene abbracciare la via intermedia suggerita dalla politica e non il testo originale dell’iniziativa «Basta tasse e basta spese, che i cittadini possano votare su certe spese cantonali». Anche se la via diretta del referendum finanziario obbligatorio non ha convinto, a vantaggio del controprogetto, il passo compiuto dà ragione agli iniziativisti, capaci di scardinare il fortino dei politici che sostenevano «si è sempre fatto a meno, andiamo avanti così». Le condizioni per chiamare i cittadini alle urne sono finanziarie: occorrerà una spesa unica superiore a 30 milioni di franchi o una spesa annua superiore a 6 milioni per almeno quattro anni. E, cumulativamente, occorrerà l’avallo di un terzo del Parlamento. L’automatismo su spese e investimenti di minore entità era indubbiamente altra cosa; quello sarebbe stato un autentico «controllo» del popolo sull’azione della politica governativa e parlamentare. Ma il messaggio dei cittadini è ugualmente chiaro: «Vi osserviamo». Per contro appare fin illusorio sperare, o essere addirittura convinti, che grazie a questa mossa le finanze cantonali torneranno sui binari senza più deragliare. Per ottenere questo risultato ci vorrà ben altro, ma le proposte ad oggi sul tavolo, se soppesate nel breve termine, vanno esattamente nella direzione opposta: più uscite e meno entrate.
Infine una constatazione sul formulario contro le «pigioni abusive». È un dato di fatto che l’Associazione degli inquilini non riesce a vincere in votazione popolare. Le sue proposte non passano, i cittadini non la seguono e, quando va bene, incassa «sconfitte onorevoli».