Il commento

La Superlega e l’ipocrisia

L’affossamento della competizione, elitaria e gestita da pochi club, non deve sviare dal problema centrale: al di là dell’indignazione, una riforma - anche radicale - serve eccome
© EPA/Fabio Frustaci
Massimo Solari
22.04.2021 06:00

Mentre la Superlega franava, un club inglese dopo l’altro, a Minneapolis l’ex poliziotto Derek Chauvin veniva ritenuto colpevole su tutta la linea per l’omicidio di George Floyd. Sul Regno Unito e il progetto monstre di Florentino Perez calava la notte. Il Minnesota, invece, vedeva farsi largo qualche caldo raggio di sole. Due momenti storici, a loro modo e – va da sé – con i necessari distinguo. Ma anche due realtà legate da un filo sottilissimo. Sì, perché le distorsioni che avvelenano il mondo del calcio non sono sparite insieme al coraggio delle società che avevano deciso di sfidare l’UEFA. Così come, purtroppo, il razzismo non ha improvvisamente lasciato gli Stati Uniti.

Due sussulti d’orgoglio, dunque. Uno figlio della rabbia furibonda dei tifosi e dell’imprudenza, mista a sgraziataggine comunicativa, dei dodici fautori della «Super League».

L’altro, né più né meno, delle leggi e della giustizia. Concentriamoci sullo scontro totale fra istituzioni sportive, economia e politica. E sulla fragile tregua che non ha di certo cancellato i problemi che attanagliano il sistema calcio. Il quale, al netto dell’indignazione popolare, una riforma radicale la necessita eccome. Pena l’implosione, causata dai debiti miliardari che affliggono il vertice della piramide e accelerata dagli usi e costumi delle nuove generazioni. Quelle che, oggi, preferiscono la moda alla tradizione e, di riflesso, tendono a invaghirsi della bellezza estemporanea del vestito, riservando scarsa attenzione al corpo che lo indossa.

Chiariamoci: l’insurrezione delle tifoserie di mezzo pianeta - registrata martedì - fa bene al cuore. Tiene in vita il principio genuino della fede sportiva: che si alimenta con i meriti guadagnati sul campo, non con le leghe chiuse e gli accordi sottobanco. Questo, però, è solo un tassello del mosaico. Non è infatti necessaria una lente di ingrandimento per comprendere che l’attuale impostazione ha già molto da spartire con la tanto vituperata Superlega. Con i campionati nazionali e la Champions League a premiare e arricchire quasi sempre gli stessi. Le cosiddette «big», già. Non solo: non ci risulta che migliaia di supporter del Manchester City siano scesi in strada per denunciare l’elusione del fair play finanziario, perpetrata negli anni – e tramite sponsorizzazioni dopate - dagli sceicchi che stanno facendo le fortune del loro club. O che per lo stesso motivo - avvicinare artificialmente il pareggio di bilancio – il dilagante fenomeno delle plusvalenze abbia scandalizzato gli amanti delle Serie A. O ancora che i seguaci del Barcellona siano saliti sulle barricate per le trattative tese a portare Erling Haaland in blaugrana e architettate senza pudore da Mino Raiola: 150 milioni di euro al Dortmund? 10 all’anno al giocatore? Laute commissioni a papà Alfie e al procuratore? Ma sì, che sarà mai... E poco importa se l’UEFA, in questi e altri frangenti, abbia preferito voltarsi dall’altra parte.

Insomma, sarebbe giudizioso lasciare l’ipocrisia e la facile retorica in soffitta. A servire, piuttosto, sono soluzioni urgenti e vincolanti. Che, innanzitutto, siano in grado di contenere gli effetti, tutto fuorché in esaurimento, della pandemia. E poi, lo ribadiamo, affrontino le evidenti criticità del modello vigente. Dal contenimento dei costi, con limiti imposti a salari e mercato, alla ridistribuzione delle risorse incamerate grazie al prodotto offerto. Passando, di conseguenza, dall’attrattività delle varie competizioni (sempre più soffocate da calendari irrazionali) e dalla capacità d’intercettare i gusti di un pubblico oramai globale. Le ultime ore, dopotutto, hanno dimostrato che gli sforzi comuni possono portare a risultati clamorosi.