L’addio di Senderos e quella maledetta nostalgia

Ah, dolce e maledetta nostalgia. Puntualmente ritorni. Cerchiamo in tutti i modi di allontanarti attraverso il presente e la quotidianità. Eppure, riesci a trovare un varco. Sempre. Presentandoci un altro conto da pagare. È una condanna. Piacevole, sì. Ma sempre condanna è. Una condanna a ricordare, a camminare come equilibristi lungo il viale della memoria, a chiederci se era meglio prima oppure no. La risposta, spesso, è doppiamente dolorosa: nel passato eravamo più giovani e, di conseguenza, più felici. La spensieratezza di ieri contro la routine di oggi. Non c’è partita, vero?
L’addio al calcio di Philippe Senderos, per noi ticinesi affettuosamente «Filippo», è tutto questo e molto altro. È un lungo viaggio a ritroso. Una carrellata di luoghi, immagini, momenti. Sensazioni, anche. L’esordio contro la Francia, ancora ragazzino. Il gol alla Corea del Sud ai Mondiali del 2006, con tanto di taglio all’arcata sopraccigliare, relativi punti di sutura, ritorno in campo da vero gladiatore e nuovo infortunio, stavolta alla spalla. Le stagioni felici all’Arsenal e quelle meno fortunate, accompagnate da scelte incomprensibili (perché l’Italia?). Gli infortuni, ancora loro, come quello a Sudafrica 2010 contro la «sua» Spagna. Senderos pianse tanto, uscendo dal campo, proprio perché ci teneva più di chiunque altro a fare bene contro il suo Paese d’origine. Ecco, i problemi fisici. Philippe ha lottato una carriera intera contro il suo corpo, contro l’idea che un gigante del genere fosse in realtà fragile, nella speranza almeno una volta di sfruttare il 100% del suo potenziale. Ha finito per dar retta agli acciacchi, sempre più frequenti e sempre più forti. È uscito dalla porta di servizio. A Chiasso, nella periferia del calcio. Lui che era abituato ai grandi palcoscenici. Ma dimostrando ancora professionalità e attaccamento. Chiedetelo ai suoi compagni di spogliatoio in rossoblù: vi diranno che al Riva IV «Filippo» aveva la grinta dei giorni migliori. E la voglia, soprattutto la voglia.
Ha raccolto meno di quanto avrebbe meritato, Senderos. Anche se può dire di avercela fatta. Quanti, a Ginevra e dintorni, avrebbero scommesso su di lui vedendolo partire per Londra, sponda Arsenal? E quanti di loro sapevano che fu Arsène Wenger in persona a volerlo fortemente. «Era un leader naturale, anche se giovanissimo» disse di Philippe l’allenatore francese. Ce l’ha fatta, sì. Giocando tre Mondiali e un Europeo. Di più, entrando nel cuore dei tifosi e della gente. Proprio perché in campo non si risparmiava mai, né dava l’impressione di avere paura. Dell’avversario come del suo fisico così possente ma allo stesso tempo così delicato. Era amatissimo ad Highbury e all’Emirates, le due case dei «Gunners» che ha frequentato. Così amato che gli assegnarono addirittura la maglia numero 6, quella ritirata dopo un altro addio pesante. Tony Adams, esatto.
Ah, dolce e maledetta nostalgia. Cerchiamo di cacciarti da dove sei venuta ma puntualmente ritorni. E ci presenti il conto. Senderos e la sua volontà di combattere ci costringono al confronto. Al ricordo. Alla consapevolezza che quella Svizzera così vicina al suo popolo difficilmente ritornerà.