Latte e vino in un fiume infernale

L'EDITORIALE DI GIOVANNI MARICONDA
Giovanni Mariconda
03.02.2018 06:00

di GIOVANNI MARICONDA - Nella mitologia greca e romana lo Stige era uno dei fiumi degli inferi. Col nome in codice «Stige» è stata anche battezzata la maxi-operazione contro la 'ndrangheta che in gennaio ha permesso di sgominare una vasta organizzazione malavitosa attiva tra l'Italia e il nord Europa. Si parla di una holding criminale capace di estendere i suoi tentacoli dal crotonese ad alcuni Länder della Germania e di oltre 160 persone finite in manette.

Ebbene, la notizia è passata quasi inosservata ma, come spesso accade, il fiume infernale è arrivato a lambire anche il nostro territorio. Nelle oltre 1.300 pagine che compongono l'ordinanza alla base dell'operazione (la più grande per numero di arresti in Italia nell'ultimo ventennio) la Svizzera compare infatti in 24 occasioni: vi si accenna a passaggi di denaro o di armi e a incontri o trasferte da parte dei vari esponenti del clan. Ma la parte maggiormente degna di nota è quella che va a toccare Lugano e una sospetta esportazione di prodotti vinicoli.Questa l'intercettazione tra due delle persone finite del mirino degli inquirenti:

«Siamo andati in Svizzera, dopo siamo andati a Lugano ... abbiamo trovato a uno che ha assaggiato il vino ... noi siamo andati e abbiamo portato un cofano di vino, giusto così, per regalarlo ... per farlo vedere ... Quel vino là è fatto proprio di vino ... Hai capito com'è? Infatti sono un milione di bottiglie». Ora, non per forza ci troviamo di fronte a un traffico illegale, ciò che emerge sono comunque rapporti piuttosto stretti tra persone vicine al clan e il nostro contesto sociale ed economico. Abbiamo provato a chiedere alle autorità federali se abbiano avviato delle verifiche sul caso. Ci è stato risposto che, pur avendo preso conoscenza dell'operazione, il Ministero pubblico della Confederazione non è stato coinvolto.

Detto ciò, da qualche tempo a questa parte tra gli addetti ai lavori si va diffondendo la convinzione che il riciclaggio (anche dopo le varie e più rigide normative introdotte) stia passando in maniera crescente e sommersa dal settore bancario e parabancario all'«economia reale» (bar, negozi, imprese edili). Non si parlerebbe, bene notarlo, di un'infiltrazione sistematica, ma piuttosto di una serie di casi singoli che vedono al centro persone legate in qualche modo alla mafia. Indizi e segnali non mancano ed è bene arginare il fenomeno evitando ogni rischio di esondazione.

In che modo? In innumerevoli occasioni si è osservato che le armi giuridiche a disposizione in Svizzera appaiono spuntate. L'articolo 260 ter del Codice penale, che ha introdotto il reato di organizzazione criminale e che un tribunale di Lugano applicò per la prima volta nel 2003, prevede una pena (fino a 5 anni) sovente definita irrisoria. Armonizzare il nostro diritto a quello internazionale, anche nella sanzione, è una buona strada, ma non è la sola. Per tranciare i tentacoli è infatti necessario attrezzarsi sul piano normativo e delle coscienze, adottando però un approccio investigativo a più ampio raggio fatto di attività sul terreno, coordinamento e scambio d'informazioni. Importante è anche la capacità di captare i cosiddetti «reati spia»: illeciti apparentemente non gravi ma che se «mappati» e messi in relazione tra loro possono fornire indizi utili. Servono poi misure puntuali nella raccolta delle prove, nell'ambito delle intercettazioni e della sorveglianza delle relazioni bancarie. È infine essenziale colpire i patrimoni illeciti dei clan rendendo più efficace l'istituto della confisca.

Insomma la soluzione non è dietro l'angolo. Lo stesso procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, magistrato di lungo corso a capo proprio dell'operazione «Stige», aveva ricordato in un'intervista al CdT che in Paesi come la Svizzera, pur essendo presente, la mafia non si vede. «La gente pensa che non c'è perché non ci sono morti, spari sulle serrande o auto bruciate. Così l'opinione pubblica non si accorge di nulla e la politica non è costretta a intervenire». Non a caso l'immagine il più delle volte evocata è quella dell'infiltrazione: alle nostre latitudini il fenomeno mafioso preferisce restare sommerso. I malavitosi non hanno interesse a manifestarsi poiché senza la consulenza di persone ben inserite farebbero fatica a raggiungere i loro obiettivi. «Sarebbero come il caffè senza caffeina o il latte senza il lattosio», era stato scritto nella medesima intervista.

E così, dal vino siamo arrivati al latte: diversi anni fa, grazie alle dichiarazioni di un pentito, gli inquirenti italiani, coadiuvati dai colleghi svizzeri, recuperarono un paio di milioni nascosti in un bidone del latte sotterrato in una fattoria del Luganese. Erano contanti «dormienti» sepolti in territorio giudicato sicuro che sarebbero dovuti servire ai membri del clan per le spese improvvise. Da allora, con ogni evidenza, il fiume infernale, nelle sue tante forme, non ha dunque mai smesso di scorrere.