Le bombe su Kiev, sotto un cielo condiviso

Troppo sangue qua e là sotto i cieli di lucide stelle, nei silenzi dell’immensità. Cantava così, Lucio Dalla. A dieci anni dalla sua morte, le parole di Henna , una canzone che parla della guerra nei Balcani, tornano più che mai attuali. Condividiamo gli stessi cieli di ucraini e russi, eppure ci sentiamo lontani, eppure noi ancora riusciamo a dormire, senza essere disturbati - turbati, macché, devastati - dai boati delle bombe. Il nostro silenzio è rotto, al massimo, da un’auto che sgomma, da qualcuno che fa festa nell’appartamento vicino. Perché la vita continua più facilmente qui che altrove, oggi. Eppure l’angoscia è già parte di noi. Quando guardiamo all’insù, vediamo certo quelle stesse lucide stelle, ma tra esse iniziamo a scorgere qualche minaccia. Tutto è cambiato nel momento in cui Vladimir Putin ha rispolverato quel vecchio tabù. La bomba atomica. Il nucleare cattivo. E ha risvegliato quindi paure che sin lì erano state in qualche modo accantonate. Mai cancellate del tutto. Silenziate, ecco, al di là dei folli esperimenti di un Kim Jong-un, che pure parlava delle bombe come di uno strumento di dissuasione. Ma come può una bomba atomica essere descritta come uno strumento
di dissuasione, di difesa? La guerra che dialoga a suon di ossimori. Ci sta, quando lo scontro non è del tutto reale, fino a quando sul campo non iniziano a cadere gli uomini. Il fatto è che in Ucraina stanno cadendo anche donne e bambini. Il numero (alto) non è ancora chiaro. Ma già solo il fatto che si parli di un «numero» fa capire quanto Putin sia andato oltre ogni ragionamento di geopolitica. Quanto poco ormai contino i perché, le cause, il ruolo e la spinta di questo o quell’altro Paese terzo, di questa o quell’altra organizzazione internazionale, a monte dell’offensiva russa. Tutta materia che va e andrà analizzata, in più sedi. Ma qui siamo su un altro piano. Perché al centro di una guerra c’è l’uomo, ed è giusto non dimenticarlo.
È giusto non dimenticare come pure l’esercito russo sia fatto di uomini. Uomini in guerra. L’angoscia che avvertiamo, guardando a Est, nasce da questo aspetto. Non è soltanto una questione di paura per la nostra incolumità. È qualcosa di molto più profondo. È empatia. È mettersi nei panni di un padre ucraino che lascia andare moglie e figli, li mette in salvo e poi torna in guerra. I racconti dal confine ci parlano di queste intimità sconvolte. Quelli dai bunker delle città assediate ci descrivono le persone rimaste come topi. Uomini e topi. «I migliori piani di topi e uomini vanno spesso storti», recitava la poesia da cui prese spunto Steinbeck. Un nascondiglio sotto terra è quindi salvezza e prigione, al contempo.
La distanza non basta, vivaddio, a renderci immuni rispetto a questa empatia. È stato detto e scritto più volte: la guerra è tornata in Europa, è insomma tornata in casa nostra. Per una volta la sentiamo vicina come dovrebbe essere ogni guerra. E mentre i Governi si affannano per vie diplomatiche e sanzionatorie, e mentre la politica nazionale, qui e altrove, già trova il modo di azzuffarsi su temi mai risolti e non risolvibili - come la difesa militare del Paese -, la popolazione si mobilita nell’organizzare aiuti e accoglienza. La gente scende in piazza. Ieri è toccato anche a Lugano. Voci che non arrivano oltre le piazze, non illudiamoci, ma che perlomeno ci permettono di ricalibrare le nostre emozioni, di dare un senso collettivo a un fatto storico che un senso umano non ce l’ha. Tornando a Henna, be’, quella canzone iniziava così: «Adesso basta sangue ma non vedi / Non stiamo nemmeno più in piedi, un po’ di pietà / Invece tu invece fumi con grande tranquillità / Così sta a me, a me che debbo parlare fidarmi di te». Non possiamo fare altro che fidarci di noi, e guardare a Est con tutta la compassione di cui disponiamo.