Le imprese, la routine e Phelps

A sette anni Michael Phelps era un bambino irrequieto che faceva impazzire la mamma e le insegnanti e che non riusciva a mantenere la calma
Vanni Caratto
24.08.2016 02:05

di VANNI CARATTO - Che cosa accomuna l'ultima vittoria di Michael Phelps alle Olimpiadi in Brasile, riuscire a smettere di fumare dopo anni di infruttuosi tentativi e trasformare un'azienda zoppicante in un caso di successo? La gestione consapevole del circolo delle abitudini che condiziona allo stesso modo la nostra vita e organizzazioni complesse come le imprese.Il ventitreesimo oro vinto a Rio nei 200 farfalla e che ha fatto entrare Phelps nella storia dello sport non è stata la medaglia più incredibile della lunga carriera del campione statunitense. Il suo vero capolavoro risale alla mattina del 13 agosto di otto anni fa. Altra olimpiade, quella di Pechino.

Anche in quel caso Phelps dominò la gara dei 200 farfalla (aggiornando il record del mondo), ma lo fece in una situazione in cui pochi altri campioni avrebbero potuto gareggiare: con l'acqua negli occhialini e praticamente a occhi chiusi. Possibile? Solo se hai imparato a domare il ciclo delle abitudini. A spiegare l'incredibile vicenda di Phelps sotto questa luce particolare è stato qualche anno fa un giornalista del «New York Times», Charles Duhigg, nel suo libro «The Power of Habit» (tradotto in italiano con il titolo un po' fuorviante di «La dittatura delle abitudini»). A sette anni Michael Phelps era un bambino irrequieto che faceva impazzire la mamma e le insegnanti e che non riusciva a mantenere la calma. La sua fortuna fu iniziare a nuotare per sfogare un po' di quell'energia.

Dopo poco si capì che sarebbe potuto diventare un grande campione, ma fu più che chiaro che l'incapacità di gestire lo stress avrebbe potuto pregiudicare quel traguardo. Il suo allenatore di allora, Bob Bowman, era convinto che, creando le giuste routine, il problema dello stress sarebbe stato superato: da quell'intuizione è nata una leggenda del nuoto. Da allora Phelps si allena secondo rituali precisi che hanno innescato una serie di automatismi nel suo cervello (le abitudini). Tra queste il suo allenatore previdente aveva inserito anche quella di imparare a «nuotare al buio». Fu così che quel 13 agosto del 2008, sotto la pressione di una finale olimpica, Phelps, un ragazzo emotivo, neanche per un centesimo di secondo aveva perso la concentrazione quando l'acqua aveva cominciato ad entrare nei suoi occhialini: aveva semplicemente modificato la sua routine spostandola su quella collaudata di «nuotare al buio», senza che la corteccia frontale del suo cervello avesse il tempo di intervenire creando un'interferenza che avrebbe pregiudicato la sua gara.

Il circolo delle abitudini (o routine) è un fenomeno che domina la nostra vita quotidiana molto più di quanto pensiamo. L'esempio classico è quello di come si guida una macchina: se ogni volta che ci mettiamo al volante dovessimo pensare come si accende il motore, si cambia una marcia o si svolta in un vicolo, la nostra vita sarebbe un inferno. Ma le stesse routine le applichiamo anche nel fare la spesa, nell'andare a correre ogni sera piuttosto che piazzarci davanti alla televisione dopo il lavoro. E anche nell'accenderci una sigaretta dopo aver giurato a noi stessi che avremmo smesso.

Duhigg spiega nel suo libro come la dipendenza da tabacco, alcol o droga si possa combattere prima di tutto individuando il segnale che innesca la routine e poi sostituendo la routine (accendersi una sigaretta) con un'altra routine (per esempio aprire una finestra e respirare aria fresca a pieni polmoni). Una volta consolidata la nuova routine ogni volta che arriverà il vecchio segnale al cervello, un fascio di neuroni vicino al tronco encefalico (proprio dove risiede il patrimonio dei comportamenti routinari) invierà in automatico la risposta automatica che innescherà il nuovo comportamento virtuoso.

Lo stesso meccanismo funziona all'interno delle imprese: le organizzazioni aziendali sono intrise di una miriade di comportamenti routinari che a volte agevolano e a volte inibiscono il successo della società. Il difficile è individuare questi comportamenti routinari e modificare quelli dannosi con altri che possono aiutare lo sviluppo dell'attività. A volte basta poco per creare nuove abitudini di comportamento che possono trasformare in radice un'azienda. Un caso che ancora si studia nelle università è quello della Alcoa, colosso americano dell'alluminio che agli inizi di questo millennio navigava in cattive acque. Al suo vertice all'epoca arrivò un uomo praticamente sconosciuto a Wall Street e che prima aveva lavorato per alcune agenzie governative: Paul O'Neill.

Il nuovo amministratore delegato, al suo primo incontro con gli azionisti, aveva spiazzato tutti annunciando che il suo piano di risanamento non si sarebbe basato sul taglio dei costi o sull'investimento in nuovi business, ma si sarebbe concentrato sulla riduzione drastica degli infortuni sul lavoro. Nonostante le critiche iniziali, l'applicazione ossessiva di un piano che andava a cambiare in modo radicale comportamenti e abitudini di lavoro consolidati all'interno delle fonderie non solo aveva trasformato Alcoa in una delle aziende più sicure degli Stati Uniti, ma – attraverso il cambio sistematico di una serie di routine dannose – aveva reso l'azienda più efficiente, facendo alla fine crescere anche i profitti.

Come insegna la storia di Alcoa, il cambio delle routine in una società è più facile in un momento di crisi, quando anche le abitudini consolidate vengono messe in discussione. Per questo si dice spesso che la crisi è anche un'opportunità, a patto che si abbia la lucidità di individuare le routine dannose, sostituendole con altre virtuose. A quel punto, anche un pericolo imprevisto (che sia l'acqua negli occhialini di un nuotatore o il rallentamento di un mercato chiave dell'azienda) può essere affrontato con una velocità tale da trasformare una crisi in un'occasione di successo.

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