L'editoriale

Le ombre scomode di una svolta mancata

Fin dall’inizio che qualcosa in questa inarrestabile rivoluzione digitale stesse andando storto era evidente a molti: le conseguenze della società iperconessa cominciano a mostrare il suo vero volto
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Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
20.05.2022 06:00

I segnali, le impressioni e gli indizi, a pensarci bene, non sono mai mancati. Fin dall’inizio, e parliamo ormai di una trentina di anni fa, che qualcosa in questa inarrestabile e inesorabile rivoluzione digitale stesse andando storto era evidente a molti. E a rendere più definite e preoccupanti certe sensazioni contribuiva pure la narrazione diffusa che propugnava l’epocale trasformazione tecnologica e sociale come un pervasivo e indolore prodigio destinato a cambiare in meglio le sorti dell’umanità. Da accettare, buoni buoni, con fiducia incondizionata, senza dubbi, senza critiche, senza discussioni, insomma. Ora però la rivoluzione inarrestabile della società iperconnessa che ci ha trasformati tutti in inconsapevoli e mansueti phono sapiens (la definizione è dell’irriducibile filosofo coreano-tedesco Byung-chul Han di cui già abbiamo scritto su queste colonne) comincia a mostrare il suo vero volto, a dispetto degli sforzi (comprensibilissimi per carità) dei colossi del settore per minimizzare l’importo del conto da pagare. In fondo, anche se il Web lo usiamo tutti e ci mancherebbe, non occorre essere dei retrogradi neoluddisti per denunciare il problema, basta avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, di prendere in considerazione senza emozione i dati, oggettivi, di cui finalmente disponiamo. Così, dovrebbe destare ben altro allarme scoprire che per la prima volta nella storia dell’umanità, le nuove generazioni mostrano (ohibò) un quoziente di intelligenza inferiore a quello delle generazioni che le hanno precedute. I dati fanno paura e sono in crescita costante e fuori controllo, sostenuti dalla quasi totalità dei neurologi, degli psichiatri, degli psicologi, dei pedagogisti, degli antropologi, dei grafologi e degli appartenenti alle forze dell’ordine: una vita trascorsa abusando del Web implica la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità. Per non parlare dei «semplici» (si fa per dire) danni fisici, miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete; e di quelli psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia. Con un meccanismo che stimola il cervello a rilasciare il neurotrasmettitore della sensazione del piacere, social, video, chat e videogiochi agiscono sulle menti (e su quelle dei più giovani in particolare) con un meccanismo simile a quello delle droghe, tanto che il giornalista e politico italiano Andrea Cangini ha intitolato proprio Coca Web, sottotitolo, Una generazione da salvare, il suo ultimo raggelante pamphlet in cui denuncia l’imporsi silenzioso, connivente e rapidissimo di questa «dittatura perfetta». Un volumetto realizzato raccogliendo gli atti degli esperti consultati dalla Commissione Istruzione del Senato italiano nell’ambito di un’indagine conoscitiva sul rapporto tra la tecnologia digitale e gli studenti. «Il dubbio che ci fosse qualcosa di strano mi è venuto – ha spiegato Cangini in un’intervista – quando ho letto un’inchiesta del New York Times sull’uso che fanno del Web i figli dei dirigenti delle grandi compagnie informatiche», quasi tutti, ma guarda un po’, impongono ai propri figli dei divieti stringenti, li tengono lontani dal digitale e molti li mandano nella scuole più ambite della Silicon Valley, dove lo smartphone è assolutamente bandito; quelle in cui ci sono ancora la lavagna col gessetto, le poesie a memoria, la geografia, i dettati, le tabelline e le prove del nove, per capirci. Tornano in mente le parole che da tempo va ripetendo il filosofo Umberto Galimberti: «Bisognerebbe smetterla di riempire le scuole di computer, bisognerebbe riempirle di letteratura piuttosto. Se non impari lì i sentimenti non li impari da nessuna parte. E una persona senza sentimenti è una persona pericolosa».