Le promesse del Governo gialloverde

Di Ferruccio De Bortoli - Una doverosa avvertenza. Non prendete troppo sul serio gli annunci degli esponenti del nuovo Governo gialloverde italiano. Del resto se Donald Trump, secondo il «Washington Post», pronuncia almeno 6 affermazioni «false o ingannevoli» ogni giorno, qualche licenza politico-letteraria sarà pur ammessa in altri Paesi. Questo però non vuol dire che non ci si debba preoccupare. Anzi. Al di là di promesse vane e polemiche inutili, la realtà economica italiana mostra crescenti debolezze. I dati sono impietosi. E non sono fake news, termine con il quale sempre più frequentemente si smentiscono cose vere. E, infatti, quando non sanno come rispondere a quesiti vari, i due vicepremier e ministri Luigi Di Maio e Matteo Salvini se la cavano con uno sbrigativo «fake news». Non sono gli unici. Accade un po' ovunque. Il tasso di sviluppo italiano rallenta. In base alle ultime stime internazionali, l'Italia crescerà poco più dell'uno per cento nel 2018. Ultima nell'Eurozona. Il differenziale di rendimento fra BTP e Bund tedeschi ha toccato la scorsa settimana quota 270 punti. I riflessi negativi si sono già visti nelle semestrali, pur buone se non ottime, di banche e assicurazioni. Insieme hanno circa il 30 per cento del debito pubblico che ha toccato, secondo l'ultima rilevazione della Banca d'Italia, il record di oltre 2.300 miliardi di euro. Gli investitori internazionali hanno sempre più dubbi sull'opportunità di impegnarsi in attività italiane. Una certa fuga dei capitali, anche da parte di residenti, è già in atto nel timore, del tutto infondato, che il Paese abbandoni la moneta unica. Anche se qualcuno, tra gli stessi esponenti della maggioranza, pensa che la sola minaccia di uscire dall'euro possa indurre la Commissione europea a concedere maggiore flessibilità nel percorso, concordato con Bruxelles, di riduzione del deficit, oggi sotto il 2 per cento. In un vertice di governo, venerdì scorso, sarebbero state concordate le linee guida della prossima legge di bilancio per il 2019, che deve essere presentata alle Camere entro il 20 ottobre. La prudenza del ministro dell'Economia Giovanni Tria avrebbe prevalso. Cioè il rispetto degli equilibri di finanza pubblica e l'impegno a ridurre il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo, oggi intorno al 133 per cento. Sì, ma tutto ciò come si concilierebbe (l'uso dei condizionali non è mai stato così opportuno) con le promesse elettorali di Cinque Stelle e Lega? Ovvero, rispettivamente, l'introduzione di un reddito di cittadinanza e una flat tax, una tassa piatta, peraltro già diventata di due aliquote? Nel comunicato ufficiale a commento dell'incontro si è parlato di «avvio» delle riforme nel 2019 e non della loro integrale applicazione che costerebbe qualcosa come un centinaio di miliardi di euro. Dunque, con le esigue risorse disponibili, si tenterà di «avviare» un po' di reddito di cittadinanza, magari estendendo il reddito di inclusione già attuato dal precedente Governo e realizzando un principio di riduzione dell'imposizione fiscale. Un soupçon che in francese vuol dire traccia, assaggio, ma anche sospetto che alla fine il piatto forte non arrivi mai. Meglio così. Il Paese non può permettersi avventure. Rimane il mistero del perché non si abbia l'onestà di ammetterlo. Ma forse la spiegazione sta nell'efficacia elettorale della politica degli annunci, dilatati dalla Rete. Si dimenticano in fretta e si cambia idea. La coerenza non è più una virtù della politica. Peccato che i numeri dell'economia siano ostinati. Il Governo Conte, se non vuole far aumentare dal prossimo gennaio l'IVA, deve disinnescare clausole di salvaguardia (ovvero vecchie spese non coperte) per 12,4 miliardi. Poi ci sono gli impegni finanziari indifferibili (come le missioni militari all'estero, molte e lodevoli) e il maggior peso degli interessi sul debito pubblico. Per colpa dello spread, cioè del premio al rischio Italia, salito di oltre cento punti da quando c'è il Governo gialloverde, anche solo sulla base di troppe dichiarazioni irresponsabili. I margini per «avviare» le riforme dipenderanno anche dall'esito della trattativa con la Commissione europea. Il ministro Tria cercherà di convincere Bruxelles che un po' di deficit in più per sostenere gli investimenti (quelli pubblici sono in calo da anni) non è poi un male. E insiste per bloccare il livello nominale della spesa pubblica. Sarebbe una piccola rivoluzione. Ma gli appetiti non si placano. La Lega vorrebbe mettere in discussione anche la legge Fornero sulle pensioni. Pragmatismo e buon senso prevarranno su incompetenza e avventurismo? Il quesito italiano è tutto qui. Intanto si discute se fermare i cantieri dell'alta velocità o chiudere la più grande acciaieria del Sud. Così, tanto per dimostrare quanto sia alta la priorità politica degli investimenti. La decrescita non è mai felice, come pensa qualche pasdaran gialloverde. È un incubo.