Il commento

L’egualitarismo che discrimina: l’«affirmative action»

Il commento di Carlo Lottieri, filosofo, docente alla Facoltà di teologia di Lugano
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Carlo Lottieri
Carlo Lottieri
02.09.2020 06:00

L’iniziativa avviata dal Dipartimento di giustizia statunitense contro l’Università di Yale rinvia a una delle questioni che da più da tempo dominano il dibattito americano. L’ateneo, infatti, adotta metodi di selezione dei propri studenti che violerebbero il principio di eguaglianza. L’università è privata, ma riceve consistenti finanziamenti pubblici e quindi le sue scelte devono rispettare taluni criteri: evitando, in particolare, di discriminare sulla base del colore della pelle.

A finire sotto accusa è allora la cosiddetta affirmative action, che dinanzi a situazioni diseguali favorisce quanti appartengono a un determinato gruppo sociale e, nel contesto americano, si tratta soprattutto di questo o quel gruppo etnico ritenuto svantaggiato. Al fine di aiutare afroamericani o latinos nei decenni passati sono state introdotte quote riservate che falsano il gioco, all’insegna di una discriminazione che vorrebbe in qualche modo riparare a ingiustizie storiche. Il risultato è che nel processo di ammissione all’università è molto meglio essere di origine latino-americana invece che asiatica, africana invece che europea. Sullo sfondo c’è una controversia filosofico-politica che verte su cosa si debba intendere per libertà ed eguaglianza. Quanti difendono l’affirmative action reputano non soltanto che l’eguaglianza vada anteposta alla libertà, ma anche che sia da leggersi in termini socioeconomici. Una mera parità di fronte alla legge, quando i contesti sociali sono diversi, è giudicata «formale» e quindi inadeguata, come da tempo i socialisti affermano nella loro critica della società liberale.

Il paradosso delle politiche di discriminazione positiva, però, sta nel fatto che al fine di combattere talune disparità di condizioni (di fatto) se ne introducano altre (di diritto). Ha senso che, nel concorso che permette di accedere a un ateneo quanti vengono da taluni gruppi etnici siano penalizzati a favore dei membri di altre comunità? È legittimo che alla fine siano proprio il colore della pelle e l’origine etnica a definire le chance di ogni soggetto all’interno della società? Non si dovrebbe accettare il fatto che noi siamo anche la nostra storia, con il suo carico di vantaggi e svantaggi, ma che al tempo stesso un ordine giuridico non debba ricreare – quale ne siano le ragioni – una sorta di apartheid rovesciata che aiuta taluni e danneggia altri?

La questione centrale è giuridica, perché si tratta di capire cosa rimane del principio d’eguaglianza quando certe politiche discriminatorie si fanno tanto pervasive. Al tempo stesso, vi sono pesanti ricadute economiche e sociali di tutto questo, perché l’idea di sconfiggere le ineguaglianze derivanti dal passato imponendo nuovi privilegi ha spesso finito per danneggiare proprio quanti, in teoria, sarebbero dovuti essere i beneficiari di quelle stesse policies.

In particolare, alcuni intellettuali afroamericani (da Thomas Sowell a Walter Williams, per fare due nomi) hanno sottolineato come simili favoritismi di legge siano controproducenti. Se dinanzi a un giovane afroamericano vengono create corsie preferenziali, alla fine il suo successo personale sarà spesso sminuito, perché sarà addebitato alla quota riservatagli. Basti pensare ai titoli prestigiosi ottenuti dagli studenti afroamericani, dal momento che anche quando essi sono molto bravi è facile che da più parti si pensi che hanno raggiunto quel traguardo grazie al favore del complesso sistema di regole posto a loro «protezione». Norme create per favorire l’accesso del maggior numero di giovani afroamericani o latini nelle università, anche a danno di bianchi o asiatici più meritevoli, alla fine si sono insomma rivelate controproducenti.

È comunque significativo che questi temi tornino proprio ora al centro della discussione. Negli ultimi mesi (basti ricordare ai disordini di piazza all’insegna del black lives matter) si è assistito al radicalizzarsi di una contrapposizione etnica che è stata cavalcata da gruppi ideologici che puntano a sovvertire l’ordine sociale basato su proprietà privata e libero mercato. Una società liberale, in effetti, si basa sull’idea che ogni singolo sia chiamato a essere responsabile e abbia il diritto di muoversi secondo i propri programmi, mentre il tribalismo emergente teorizza il carattere insuperabile degli scontri tra le diverse collettività.

L’egualitarismo redistributivo sotteso alle politiche di affirmative action prese le mosse da una visione che era in larga misura socialdemocratica e che mirava, quindi, a ridurre le differenze tra gli individui. Nel momento in cui ha però focalizzato l’attenzione sui gruppi e sulla necessità di soccorrere i meno favoriti, esso ha sempre più indebolito quella civiltà del diritto che supera la riduzione del singolo alla sua comunità, riconoscendo alla persona quei diritti che le spettano, quale che sia il genere o l’origine.

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