Lehman Brothers, dieci anni dopo

di ALFONSO TUOR - Sabato prossimo ricorre il decimo anniversario del fallimento della banca d'investimento americana Lehman Brothers, che fu l'apice della più grave crisi finanziaria del dopoguerra. Il susseguente panico e la paura della caduta in una depressione simile a quella degli anni Trenta spinsero i Governi a ricorrere ai soldi pubblici per salvare il sistema bancario e le banche centrali ad adottare politiche monetarie eccezionali. Il peggio fu sventato e addirittura la droga dei tassi di interesse a zero (e spesso addirittura in territorio negativo) e le continue iniezioni di liquidità hanno fatto sì che per molti il terremoto finanziario di dieci anni fa sia stato dimenticato o derubricato ad un evento di scarsa rilevanza. Questo risultato è molto gradito ai grandi gruppi finanziari ed economici intenti a proseguire la loro attività come se nulla fosse successo e soprattutto a far sì che la politica economica riprenda a seguire le linee direttrici dei decenni precedenti. Questo proposito sembra coronato da successo. Infatti furono presto dimenticati i proclami dei capi di Stato e di Governo che assicuravano riforme che avrebbero impedito il ripetersi di un disastro di simili proporzioni. Si può dire con certezza che la crisi è stata sprecata e rischia di ripetersi (sicuramente non con le medesime modalità), poiché non sono state affrontate le cause che l'avevano originata. A livello finanziario le banche «too big to fail», che pongono un rischio all'intero sistema, sono ancora più grandi di prima, il settore parabancario (dai fondi private equity agli hedge fund) si sono ulteriormente sviluppati e non sono sottoposti a controlli, l'indebitamento generale è aumentato e i dirigenti delle banche, che non hanno dovuto rispondere delle loro responstinuano a sapere che possono continuare a rischiare a "nostro" pericolo, poiché i grandi istituti continuano a godere di una garanzia implicita degli Stati, ossia di tutti i cittadini. Per di più le correzioni sostanzialmente cosmetiche introdotte in alcuni Paesi vengono ora già gradualmente cancellate. È quanto, ad esempio, sta avvenendo negli Stati Uniti. L'avidità dei grandi capitani della finanza mondiale è stata però solo una concausa della crisi, che affondava le sue radici in un modello economico insostenibile, basato sulla convinzione che il libero mercato sarebbe sempre in grado di autoregolarsi e che quindi la politica economica deve concentrarsi nella riduzione del ruolo dello Stato, nella diminuzione della pressione fiscale e nella deregolamentazione del mercato del lavoro. Sebbene questo modello sia stato inequivocabilmente travolto dalla crisi, queste rimangono le linee direttrici prevalenti del mondo occidentale. In altri termini, si potrebbe dire che le élite mirano ad un ritorno al passato. Ed è proprio questa la ragione che rende una nuova crisi economica ripetibile. I redditi da lavoro sono stagnanti ed in alcuni Paesi addirittura diminuiti, come confermano le stesse banche centrali preoccupate dal fatto che la crescita economica e la diminuzione dei dati "ufficiali" della disoccupazione non diano avvio a consistenti aumenti salariali e quindi a una crescita dei consumi e della domanda che renderebbe questa fase di espansione sana e duratura e non solo frutto della droga che continuano ad iniettare le banche centrali. D'altro canto i redditi da capitale continuano ad aumentare e il presunto gioco delle forze di mercato diventa sempre più limitato dall'affermazione nella maggioranza dei settori economici di grandi monopoli, che godono di vere e proprie posizione di rendita. E infatti nel mondo anglosassone si ama sostenere che questa è solo apparentemente un'economia di mercato, un'economia costruita a favore dei percettori di rendite che vanno da quelle ottenibili tramite i mercati finanziari e quelli immobiliari e così via. Insomma si è sempre più imposta la convinzione che con i soldi si fanno i soldi, ma con questi soldi non si sostiene un'economia che deve essere invece basata sul lavoro, sull'innovazione e sull'imprenditorialità. Questa impostazione, che è stata assecondata dalle politiche dei principali Governi occidentali e che è avversata da una parte sempre più consistente dell'opinione pubblica, rende molto probabile il ripetersi di una grave crisi economica con modalità sicuramente diverse da quelle di dieci anni fa.
