L’esigenza di tornare a vivere l’arte

«Piccolino», «un po’ scuro», «scolorito», «piuttosto insignificante». Sono solo alcune delle reazioni più frequenti (quasi sempre socialdigitali naturalmente) manifestate da coloro che, visitando il Louvre, si sono sentiti in dovere di posare per qualche istante lo sguardo sul ritratto di Monna Lisa Gherardini, opera di tale messer Leonardo da Vinci intorno al 1503. Ma se «La Gioconda», ovvero il quadro più famoso, iconico, celebrato ed enigmatico del mondo si rivela spesso una delusione non c’è troppo da stupirsi. Nulla di nuovo o di scandaloso, dunque, anche se il moltiplicarsi di analoghi mugugni al cospetto di opere più o meno fondamentali solleva più di qualche dubbio sulla capacità collettiva di «guardare» l’arte in un’epoca, paradossalmente, dominata dalle immagini. Orfani di quelle minime basi di storia dell’arte che un tempo appartenevano al bagaglio indispensabile delle persone di media cultura e impreparati alle complessità dell’arte contemporanea (nei confronti della quale il mantra pop rimane tristemente quello del titolo di un gustoso saggio di Francesco Bonami: «Lo potevo fare anch’io»...), l’impressione è che anche di fronte a capolavori sbalorditivi si vadano via via perdendo quell’empatia e quel senso del meraviglioso indispensabili per apprezzare con la pancia e con il cuore ancor prima che di capire con la testa. Rintronati da immagini iperdefinite in mille K, esperienze virtuali multidimensionali, immersioni in realtà aumentate che più aumentate non si può, «vediamo» troppo senza essere più capaci di «guardare» ed è quindi ovvio che più nulla, da Giotto a Pollock, da Caravaggio a Haring, riesca a fare il minimo solletico ai nostri sensi obnubilati. E ci stiamo dimenticando in fretta che all’arte (se davvero vale qualcosa) le realtà aumentate non servono: la forza e la bellezza (così come al contrario le fragilità e i punti deboli) l’opera d’arte le ha già in sé. Basta saperle guardare, sentire e apprezzare. Per questo certo, in molti casi, è utile un minimo di preparazione, di approfondimento, un lavoro di divulgazione continua che può anche avvalersi in maniera intelligente delle moderne tecnologie. Ma poi ognuno deve essere in grado di decidere con i suoi occhi, vivendo in prima persona l’esperienza di percorrere un dato spazio architettonico o avvicinandosi a osservare nel dettaglio un dipinto o una scultura. D’altronde una delle lezioni che abbiamo imparato (o di cui abbiamo avuto conferma) in ambito culturale dagli effetti della pandemia è proprio che l’arte non può essere sostituita dall’esperienza multimediale, al massimo può esserne accompagnata in momenti di emergenza, necessità o impossibilità come negli ultimi mesi. Il multimediale però non può mai sostituire, nell’arte come altrove, l’esperienza concreta e diretta della vita vera. Ed ecco perché in queste settimane pinacoteche, musei, fondazioni, istituzioni e gallerie si affannano tra mostre, progetti e iniziative in un’offerta d’arte più ricca di prima, di cui cerchiamo di rendere conto anche su queste pagine. Ed ecco perché, solo per fare un esempio emblematico, tra pochi giorni a Zurigo il Kunsthaus inaugurerà finalmente la sua nuova e a lungo (dodici anni) agognata «estensione» griffata Chipperfield che (grazie ad una spesa di 206 milioni di franchi, metà sostenuta dai privati, il resto da città e cantone) ne raddoppierà gli spazi espositivi. Nell’intento dichiarato di confermarsi (le previsioni parlano di almeno 400 mila visitatori all’anno) non solo come una mecca internazionale della fruizione pubblica della grande arte di ogni tempo ma pure come un punto di riferimento per la società civile, almeno a livello nazionale. L’arte insomma si salverà solo se continueremo a saperla guardare, magari anche per accorgerci, con cognizione di causa, che quel tanto decantato sorriso in fondo non è poi un granché.