L'identità perduta del dialetto

di BRUNO COSTANTINI - Sul dialetto «proseguiremo indomiti». Così Nicholas Marioli, consigliere comunale della Lega a Lugano, si è espresso su nostro giornale lo scorso 28 agosto commentando la risposta dell'Esecutivo cittadino a una sua interrogazione su quel che si sta facendo per introdurre dei corsi facoltativi di dialetto nelle scuole elementari in collaborazione con le assemblee dei genitori. Il principio di tali corsi era stato accolto un anno fa dal Legislativo a larga maggioranza senza modificare il Regolamento comunale, partendo da una mozione leghista con primo firmatario lo stesso Marioli. Per ora su 19 assemblee dei genitori solo due intendono attivarsi su questo tema. Rispettiamo l'indomito spirito nel portare avanti la causa, ma dubitiamo che si possa andar lontano.
Chi scrive ha molta simpatia per il dialetto e ha pessimi ricordi dell'ambiente, anche scolastico, degli anni Sessanta del secolo scorso quando chi proveniva da famiglie nelle quali il dialetto era ancora, negli stessi centri urbani, lingua corrente e l'ascolto della «Domenica popolare» di Sergio Maspoli un rito, veniva messo all'indice da altezzose maestrine, fresche di patente magistrale, portatrici del nuovo verbo del boom economico e della modernità. Mica si poteva rimanere dei Gigi di Viganello qualsiasi e fare la misera figura di quelli che «tiran sü i culzùn cun la rüzéla».
Sappiamo che quel brusco passaggio da una società all'altra, comunque inevitabile, ha prodotto anche danni culturali (si pensi solo alle devastazioni urbanistiche) oltre che innegabili benefici materiali per tutti.
Oggi la situazione è molto diversa. Il mondo che si esprimeva tramite il dialetto è quasi del tutto scomparso e c'è da scomettere che anche diversi giovani attivi in politica, impegnati nell'immane opera di ridare ticinesità al Paese, il dialetto non lo sanno parlare, al massimo lo capiscono, mentre violentano l'italiano smanettano con abbreviazioni e simboli sui social media. È un bene? È un male? Semplicemente è un dato di fatto che la società si è evoluta in questa direzione. Una lingua è lo strumento di comunicazione legato ai valori e alla vita qutidiana di una comunità, dev'essere sentita dalle persone che la utilizzano e non può essere tenuta in vita artificiosamente per farne un paravento identitario. Altrimenti si finisce nel folcloristico, nel macchiettistico o peggio ancora nel ridicolo. Negli anni Novanta del secolo scorso, quando la Lega Nord di Umberto Bossi iniziò ad affermarsi e nei cartelli stradali dei Comuni lombardi cominciarono ad apparire nomi in italiano e in dialetto, Davide Rota si divertì dando alle stampe il famoso «Curs de lumbard per terun», cui fece seguito il «Curs de lumbard per balùba, balabiòtt e cinés cumpres». Vogliamo fare un «Curs da ticines par lifroc»?
Se poi il dialetto lo si vuole trasformare in uno strumento per segnare il territorio, quasi un passaporto semantico per essere «vün di noss», la cosa si complica e al ridicolo rischia di aggiungersi altro ridicolo. Dalle pianure alle valli, in Ticino ci sono diversi dialetti, da quello cosiddetto «ferroviario» da tutti comprensibile a quelli più duri e spigolosi, frutto anche dei miscugli con altre lingue nati dell'emigrazione. Senza contare forme come il «rügin», che era il gergo segreto dei magnani, ancor più adatto per applicare i principi esclusivi del «primanostrismo». Ogni angolo del cantone ha il suo sovranismo dialettale, seppur in declino, legato all'identità di quel fazzoletto di terra magari in conflitto con quello vicino. Un sovranismo ne nasconde sempre un altro (chissà che fatica per Bannon e Salvini creare l'internazionale del sovranismo). Un conoscente dell'alta Leventina, di non sospetta appartenenza politica, ci ha detto che l'Italia inizia da Biasca. Ma dunque ai corsi facoltativi di dialetto alle elementari di Lugano che identità si trasmetterà mai ai pargoli? Come sosteneva Luciano De Crescenzo, si è sempre meridionali di qualcuno.
Alla fin fine, così com'è impostata, questa faccenda del dialetto, che è senz'altro un elemento della nostra identità e che sappiamo toccare corde sempre molto sensibili, pare più una foglia di fico che un reale strumento per consolidare la condivisione dei valori che sono alla base della nostra storia e della nostra società. È più sulla conoscenza storica e sociale del Paese, come ha detto l'ex direttore del Centro cantonale di dialettologia Franco Lurà, che occorre semmai lavorare, perché semplicemente «cascià do ball» in dialetto non serve a un tubo. Né al dialetto né al mondo che rappresenta, o meglio che ha rappresentato. Nel frattempo cerchiamo almeno (media compresi) di non disimparare l'italiano e di lottare per la sua solidità, per riprendere il monito lanciato recentemente sul «Caffè» dal professor Renato Martinoni. E «mò nem a bevan un quartin».