L’importanza di dare i numeri (romani)

Strano è soltanto che qualche illuminato non ci avesse pensato prima. Nel sistematico processo di suicidio culturale che contraddistingue con preoccupanti accelerazioni la nostra epoca, i poveri numeri romani in fondo rappresentano il bersaglio perfetto. Ma anche un paradigma di grande forza simbolica per chiunque intenda, usando un minimo di buonsenso, resistere a questa deriva imperante. Per nulla omologabili, impossibili da semplificare, poco digitalizzabili, astrusi, démodé, in fondo superflui e sostanzialmente d’impiccio nell’epoca dell’ignoranza sbandierata e dell’incultura come valore di uguaglianza e di libertà (noi ironizziamo ma sono in tanti davvero a credere che sia così) ecco che dopo un primo tentativo poco pubblicizzato al Louvre, qualche giorno fa, l’ispirata responsabile del Museo Carnavalet di Parigi (benemerita istituzione che, per paradosso, si dovrebbe occupare ai più alti livelli di competenza della millenaria storia della città sulla Senna) se ne esce con l’idea di abolirli (i numeri romani) perché «stanno diventando un ostacolo alla comprensione e quasi nessuno è più in grado di leggerli». O bella! Vuoi vedere che grazie allo zelo della angosciata curatrice d’oltralpe abbiamo trovato l’emblema ideale della catastrofe culturale in corso in Occidente? Personalmente i numeri romani ci sono sempre stati simpatici proprio perché ci costringono, almeno loro, a pensare. Nella grammatica italiana poi hanno lo strepitoso vantaggio di essere per loro natura aggettivi numerali «ordinali» (qualcuno se lo ricorda?) e quindi sanno aiutarci a mettere ordine nelle vicende del mondo senza dover aggiungere puntini, cifrine, pallini e fastidiose desinenze varie. Inoltre, guarda un po’, fanno parte di una gloriosa tradizione storica e di conseguenza conferiscono immediatamente prestigio e autorevolezza. Certo, da tempo non mancavano i segnali che non godessero più di buona salute. Esilarante, fu ad esempio qualche anno fa, lo spreco di fantasiose interpretazioni che accompagnò in mezzo mondo l’uscita sul mercato del modello «ics» di un venerato gadget tecnologico (il melafonino, per intenderci). Quale mistero avvolgerà quell’incognita insondabile? Cosa avranno voluto sottindendere gli inarrivabili guru comunicativi di Cupertino? Più o meno nulla: si trattava semplicemente della decima edizione di quel tipo di telefono. Ma tant’è, da qui ad abolire M, D, C, L, V, X e compagnia bella di I sembrava dovesse ancora correrne. Invece eccoci qui alla tempesta perfetta dell’autocastrazione identitaria: prima non si insegnano le cose e poi le si eliminano per non far sentire a disagio chi non le sa. Certo, i numeri romani richiedono un minimo (ma minimo davvero) impegno intellettuale. Qualcosa che generazioni di studenti hanno potuto sopportare intorno ai sette anni quando in un paio di mattine la maestra svelava l’arcano meccanismo di questo antico codice iniziatico tanto da trasformarci tutti in piccoli Indiana Jones calcolanti o a intrepidi Champollion in erba di fronte a chiese, monumenti e didascalie di musei. In Ticino come a Parigi. Adesso suonano profetiche le parole che Philip Roth nel 2000 faceva pronunciare nel consigliatissimo (per chi volesse capire le fallimentari storture politicamente corrette del presente) La macchia umana alla sorella del protagonista Coleman Silk, Ernestine, docente come lui, in un memorabile dialogo con il narratore Nathan Zuckerman: «Ai tempi dei miei genitori, e anche ai miei tempi e ai suoi, le carenze erano dell’individuo. Oggi sono della disciplina. Leggere i classici è troppo difficile, dunque la colpa è dei classici. Oggi lo studente sbandiera la sua incapacità come se fosse un privilegio. Non riesco a impararlo, dunque dev’esserci qualcosa di sbagliato. E qualcosa di particolarmente sbagliato deve avere l’insegnante cattivo che pretende di insegnarlo». Viene quasi da dare i numeri. Romani naturalmente.