L’indispensabile inutilità della filosofia

di CARLO SILINI - Che bello, c'è anche una festa dedicata a qualcosa che non serve a nulla: il 15 novembre è la giornata mondiale della filosofia, volgarmente nota per essere quella cosa per la quale, con la quale e senza la quale l'uomo rimane tale e quale. Una disciplina genuinamente inutile perché non risolve i problemi, li crea. Non semina certezze, le distrugge. Ai filosofi, infatti, piacciono più le domande che le risposte. E per fortuna – aggiungiamo senza ombra di ironia o di masochismo. Perché? Il filosofo Umberto Galimberti lo spiega così: «Socrate diceva non so niente, proprio perché se non so niente problematizzo tutto. La filosofia nasce dalla problematizzazione dell'ovvio: non accettiamo quello che c'è, perché se accettiamo quello che c'è, ce lo ricorda ancora Platone, diventeremo gregge, pecore. Mi rendo conto che realisticamente uno che si iscrive a filosofia compie un gesto folle, però forse se non ci sono questi folli il mondo resta così com'è». Un'argomentazione che dovrebbe bastare a sdoganare la sana inutilità della filosofia. Ogni epoca ha bisogno di teste pensanti capaci di disfare il giocattolo di un mondo che non funziona più per costruirne uno nuovo sperabilmente migliore. Certo, il modo in cui nella storia si sono concretizzate le filosofie dominanti non sempre è stato edificante e forse non lo sarà mai. Non lo è stato né all'epoca degli assolutismi non solo religiosi (che in molte parti del pianeta sono tutt'altro che scomparsi), né in quello delle ideologie rosse o nere che fossero, tutte più o meno crollate sotto il peso delle proprie contraddizioni. E non lo è oggi, nel frullatore del relativismo globale. Perché l'applicazione pedissequa delle filosofie ha spesso creato greggi. Perciò, probabilmente, il miglior giardino della filosofia non è il governo del mondo (un'utopia fragile e antica) ma quello più umile e ristretto della nostra anima o, se non ci si crede, della nostra mente. Più che la storia della filosofia dovremmo imparare l'arte del filosofare, che è poi l'arte del pensare: qualcosa che dovrebbe riguardare tutti, non solo gli studiosi di Empedocle o Kant. Perché, oggi forse più di ieri, la capacità di filosofare è sottilmente disprezzata. C'è un'ampia categoria di persone (rieccolo, il gregge) convinta che il «non pensare» sia riposante, che faccia bene alla salute, che ci sottragga al peso della vita. Perché mai dovremmo concentrarci sul senso ultimo delle cose se possiamo guardare la nostra serie tv preferita, comprare quelle scarpe così trendy, navigare ore e ore nella Rete, tempio dell'algoritmo che pensa e seleziona per noi gusti, tendenze, verità e menzogne? Senza contare le sempreverdi parole di Umberto Eco: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel». Nel flusso continuo di informazioni sugli schermi dei nostri telefonini, dei tablet e dei computer abbiamo l'impressione di sapere un'infinità di cose, ma non ne verifichiamo nessuna e ne comprendiamo pochissime. Si dice che in un'epoca del genere l'ignoranza è una scelta. Ma non è proprio così. Il fatto è che l'attualità, veloce e immediata, ha preso il posto della ricerca della verità, lenta e infinita. E che le competenze filosofiche di base, quelle che dovrebbero appartenere ad ogni umano che intenda vivere con un minimo grado di consapevolezza, vengono ignorate. Chi si preoccupa di problematizzare una questione, di concettualizzare una nozione, di argomentare una tesi o un'obiezione? Tolte queste capacità, ci possono far credere, o – peggio- far fare qualsiasi cosa. «È nel vuoto del pensiero che si iscrive il male», annotava con cognizione di causa Hannah Arendt. La ricerca della soluzione teorica di un problema esistenziale sembra un lusso per acchiappanuvole. Perché la filosofia non è una scienza esatta e i suoi esiti sono sempre opinabili. Così, quando non ci abbandoniamo all'onda ludica del «non pensiero», proviamo ad aggrapparci all'onda chimica dei farmaci. Ma come diceva il titolo di un brillante saggio di filosofia scritto da Lou Marinoff, nella nostra società ci vorrebbe «più Platone e meno Prozac». Pillole e antidepressivi possono curare i sintomi del tuo malessere, ma non le loro cause. La fuga dal pensiero, che è fuga dall'arte del filosofare, in molti casi non serve a nulla. Riappropriamoci, quindi, di questa disciplina «inutile», delle antiche armi del pensiero critico. Oppure rassegniamoci a lasciarci dire, senza batter ciglio, che siamo entrati nell'era della post-verità, che è un altro modo di suggerirci che non vale la pena di cercarne una, che la Terra Piatta vale quella Tonda, che la mia razza è meglio della tua, che la donna è preda e l'uomo predatore e altre alzate d'ingegno del genere. Socrate, Platone, Aristotele e i loro sagaci eredi ci salvino dal blackout volontario delle nostre menti. Servono più sillogismi e meno social, più maieutica e meno voci del padrone. Perché, e qui parla ancora Galimberti, «il giorno in cui noi abdichiamo al pensiero abbiamo abdicato a tutto».