L’inizio della fine dei sogni

È l’inizio della fine dei sogni: il primo sogno è che le criptovalute, come il bitcoin, potessero essere usate come monete; il secondo quello dell’amministrazione Trump che le stablecoin, ossia le criptovalute agganciate ad una moneta quale il dollaro, potessero essere uno strumento che favorisse l’indispensabile afflusso di capitali stranieri per finanziare il debito pubblico americano. Questi sogni sono originati dalla sempre più diffusa consapevolezza della fragilità delle monete fiduciarie ed in particolare del dollaro, diffondendo la speranza di potersi liberare dell’influenza sulla gestione della moneta di governi e banche centrali. Ma queste alternative non funzionano. Il prezzo del bitcoin è letteralmente precipitato dal massimo di 125.000 dollari, raggiunto lo scorso 6 ottobre, agli 82.500 dollari di venerdì scorso, perdendo circa un terzo del suo valore. Se fosse stato una valuta, come ha sottolineato il capoeconomista di UBS Paul Donovan, il collasso del valore del bitcoin avrebbe provocato un’inflazione del 900%. Dunque il bitcoin non può essere un sostituto delle monete, ma una specie di gioco d’azzardo che ha già permesso a molti di guadagnare parecchi soldi. I guai del bitcoin, che non è agganciato ad alcuna moneta, hanno creato problemi a Tether, la maggiore stablecoin a livello mondiale, che è invece agganciata al dollaro (ciò vuol dire che garantisce ai suoi investitori il riscatto alla pari con il dollaro). L’amministrazione Trump ha fatto passare lo scorso luglio una legge, il cosiddetto Genius Act, che a partire dal 2027 detterà alle stablecoin le regole per operare negli Stati Uniti. Tra queste la più importante stabilisce che queste società debbano avere il 75% dei loro capitali investiti in titoli statali americani. Proprio a questo proposito cominciano i problemi per Tether che è stata fondata nel 2014 da Giancarlo Devasini e Paolo Ardoino, e che finora ha raccolto circa 200 miliardi di dollari, un ammontare tale da attrarre l’attenzione delle autorità finanziarie e del sistema bancario.
E infatti l’estate scorsa la Banca centrale europea lancia l’allarme, sostenendo che Tether potrebbe innescare una crisi finanziaria a livello mondiale e lo scorso 26 novembre è stata declassata da Standard&Poor’s al livello di titolo spazzatura, sostenendo che il suo ancoraggio al dollaro nell’ipotesi di una corsa dei suoi clienti a riscattare i suoi token in cambio di dollari non potrebbe essere assicurata, poiché i suoi investimenti sono ad alto rischio. Tra questi figurano anche 10 miliardi piazzati in bitcoin, che ora rappresentano il 5,6% dei Tether in circolazione, facendo sì che le riserve di Tether non sono più in grado di assorbire un ulteriore calo del bitcoin. È comunque difficile capire chi abbia potuto investire in Tether, poiché per gli investitori non vi era alcuna prospettiva di guadagno. Infatti i tassi di interesse prodotti dagli investimenti in titoli obbligazionari americani restavano alla società e non venivano distribuiti. È invece chiaro che il vantaggio per i due fondatori italiani diventati miliardari grazie a decine di miliardi di dividendi che si sono attribuiti grazie ai rendimenti delle riserve dei clienti. Sta di fatto che ora i due fondatori si sono rifugiati in Salvador, il Paese del bitcoin, e che molto probabilmente Tether verrà salvata, ma è difficile capire come l’amministrazione Trump abbia potuto vedere nelle stablecoin uno strumento utile per finanziare il debito pubblico americano. È pure ovvio che il successo di Tether si è scontrato con gli interessi e l’invidia del sistema finanziario americano che vede nelle stablecoin un concorrente pericoloso nella raccolta del risparmio.

