Editoriale

Lo scontro tra Cina e USA è di natura geopolitica

L’accordo raggiunto da Donald Trump e Xi Jinping dovrebbe, forse, mettere fine a un contenzioso commerciale che si protrae in realtà dal primo mandato del tycoon ed è continuato a fasi alterne anche durante l’amministrazione di Joe Biden
©Andy Wong
Generoso Chiaradonna
30.10.2025 06:00

L’accordo raggiunto da Donald Trump e Xi Jinping dovrebbe, forse, mettere fine a un contenzioso commerciale tra Stati Uniti e Cina che si protrae in realtà dal primo mandato di Trump ed è continuato a fasi alterne anche durante l’amministrazione di Joe Biden.

L’attuale presidente degli Stati Uniti ci ha abituati a cambiamenti repentini di opinioni e più volte ha dimostrato di non credere nelle alleanze come valori permanenti, ma come strumenti tattici di una trattativa senza fine. Nella sua visione, la politica estera non è un sistema di relazioni stabili, bensì un tavolo da poker dove ogni carta può essere rigiocata se conviene nell’immediato.

Già durante la sua prima presidenza e in questi dieci mesi alla Casa Bianca lo si è visto chiaramente: dazi imposti all’improvviso agli alleati più consolidati - Unione europea, Canada, Messico - inversioni di rotta su accordi commerciali a distanza di poche settimane, proclami come «i dazi sono una cosa bellissima». È stato un modo di procedere che ha contribuito a indebolire l’architettura multilaterale nata nel dopoguerra, quella pax americana che per decenni ha dato forma all’Occidente politico.

Per la Cina, Trump non è dunque un partner, ma un avversario prevedibile solo nella sua imprevedibilità. A Pechino sanno che si può trattare con lui, ma solo nella logica dello scambio immediato, mai in quella della cooperazione di lungo periodo. La pianificazione strategica, infatti, appartiene a chi può permettersi di pensare in decenni e non in cicli elettorali. E in questo senso il tempo gioca a favore della Cina.

In teoria, i dazi sono uno strumento meramente tecnico di politica commerciale: servono a proteggere industrie domestiche o a riequilibrare deficit persistenti di bilancia dei pagamenti verso il resto del mondo. Trump, invece, li ha trasformati in qualcosa di diverso: un’arma politica, un mezzo di pressione trasversale per ottenere concessioni su tecnologia, sicurezza e proprietà intellettuale. Nel caso della Cina, le terre rare che possiede in grande quantità sono un bene di cui hanno bisogno gli Stati Uniti per alimentare la rivoluzione dell’intelligenza artificiale che vale almeno un punto di crescita del PIL, ma anche per l’industria militare e per tutto il settore delle energie rinnovabili.

Sul piano dei numeri i risultati sono modesti. Il deficit commerciale americano non si è ridotto - anzi, nei primi sei mesi dell’anno è passato da 420 a 584 miliardi di dollari. Eppure, politicamente, i dazi hanno funzionato: hanno rafforzato la narrativa dell’America First e cementato il consenso interno, almeno tra i suoi sostenitori.

Trump, però, non ha torto nel diagnosticare un male reale - il doppio deficit, commerciale e di bilancio, che ogni anno sfiora i duemila miliardi di dollari - ma non ne trae le conseguenze logiche. Dire agli americani che vivono al di sopra dei propri mezzi, che dovrebbero risparmiare di più e consumare di meno e magari anche aumentare il prelievo fiscale, non porta voti. Più facile costruire un racconto di colpevoli: gli immigratI clandestini, la Cina, l’Europa.

Ma quando le Borse festeggiano un accordo tra Washington e Pechino – i listini americani sono ai massimi storici, non è perché credono nella diplomazia: è perché non amano i dazi. Le tariffe creano incertezza, aumentano i costi, riducono i margini e rallentano il commercio globale. È una logica che nasce dal credo liberista - quello che paradossalmente anche buona parte della sinistra europea ha finito per accettare.

Trump, nel suo paradosso, ha avuto un merito: ha trasformato i critici della globalizzazione economica in difensori del libero scambio. Ogni volta che ha minacciato nuovi dazi, i mercati finanziari hanno invocato il ritorno alla stabilità, dimenticando che quella stabilità si fonda su squilibri strutturali che nessuno, in realtà, vuole correggere.

Dietro il linguaggio dei dazi, si muove quindi una strategia più ampia: il contenimento. Trump non combatte solo un conflitto commerciale, ma una battaglia sistemica per frenare l’ascesa tecnologica di Pechino. Huawei, TikTok, semiconduttori, intelligenza artificiale: ogni mossa rientra in un disegno geopolitico che mira a impedire alla Cina di diventare leader globale nel XXI secolo. I dazi, in questa prospettiva, sono solo la superficie del gioco. Un segnale interno di forza e, al tempo stesso, un messaggio esterno di deterrenza.