L'editoriale

L’Ucraina a Lugano, visibilità ma non solo

C'è tanto da discutere, tanto da decidere, sulla ricostruzione dell'Ucraina e non è affatto scontato che tutto questo possa passare da Lugano: la città godrebbe peraltro di una visibilità eccezionale
©SERGEY KOZLOV
Paride Pelli
24.05.2022 06:00

È stata Lugano la protagonista della prima giornata del Forum economico mondiale che si è aperto ieri a Davos: il presidente della Confederazione Ignazio Cassis, nel suo discorso d’apertura, ha portato l’attenzione di tutti sulla ricostruzione dell’Ucraina, parlando in particolare del vertice previsto sulle rive del Ceresio il 4 e 5 luglio prossimi. La quinta Conferenza sulla riforma ucraina, come è stata chiamata, sarà l’occasione per sondare, davanti a 40 Stati e 18 organizzazioni internazionali, le possibili convergenze politiche su questo enorme e delicato progetto. Il tutto in un contesto di «neutralità collaborativa» il cui tratto comune sarà il rifiuto di qualsiasi violazione dei valori fondamentali. Una vetrina a dir poco prestigiosa, quella del WEF, che Cassis ha efficacemente utilizzato per lanciare un summit che potrebbe ospitare nomi illustri della politica internazionale tra capi di Stato e primi ministri. Lo stesso Volodymyr Zelensky ha ringraziato a tal proposito la Svizzera e non è detto che, come avvenuto ieri nei Grigioni, non lo si riveda in videoconferenza anche a Lugano. Dopo la grande eco mediatica di cui Lugano ha goduto in seguito alle parole di Cassis, diventa difficile comprendere le ragioni di coloro che continuano a considerare la Conferenza sulla riforma ucraina un rischio inutile sul piano della sicurezza e uno sperpero ingiustificato di denaro. Sino ad oggi si è parlato di Ucraina, e ci mancherebbe, soprattutto per le devastazioni provocate dalla guerra, per il numero di vittime civili e per la creazione di corridoi umanitari per l’accoglienza dei profughi, ma non si può continuare a ritenere la ricostruzione di un Paese (e di una cultura) un aspetto secondario, da affrontare solo dopo la fine del conflitto, quando probabilmente non avremmo tra le mani nient’altro che cenere. È importante dunque che si inizi a discuterne, per poi organizzarsi in modo pragmatico cercando di accorciare il più possibile tempi che saranno giocoforza lunghissimi, con una nazione distrutta in taluni casi fin nelle fondamenta e con un impegno internazionale che sarà dispendioso, e quindi inevitabilmente soggetto a variabili e imprevisti che vanno messi in conto. Già adesso si parla dell’opera di ricostruzione più impegnativa della storia: serviranno fra i 500 e i 1.000 miliardi di dollari (ad oggi) per rimettere in piedi l’Ucraina mentre Zelensky ha stimato in 600 miliardi il buco complessivo generato dalla guerra. Numeri da far impallidire il piano Marshall, che costò 12,5 miliardi dell’epoca per il riavvio di un’Europa appena uscita, in ginocchio, dalla Seconda guerra mondiale. Intanto, restano molte incognite sul tavolo: quanto durerà ancora il conflitto e quanto potrà lievitare il costo già impressionante della ricostruzione? Quali città resteranno sotto la gestione ucraina e quali diventeranno territorio russo? Nel secondo caso sarà quantomeno strano per l’Occidente decidere di finanziare opere la cui realizzazione sarà appannaggio di Mosca. E infine: come e attraverso chi monitorare la grande macchina della ricostruzione per scongiurare il rischio, molto concreto, che una parte degli aiuti finiscano impiegati altrove, per scopi meno nobili? C’è insomma tanto da discutere, tanto da decidere, e per una giusta causa. Non è affatto scontato che tutto questo possa passare da Lugano, città che godrebbe peraltro di una visibilità eccezionale. Ma non è certo questa la ragione di fondo per dire sì alla Conferenza: in primis, e tutti gli svizzeri lo sanno per storia e per temperamento, viene la vicinanza verso un Paese aggredito e raso al suolo. Tirarsi indietro sarebbe stato un errore imperdonabile.

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