Il commento

L’ultimo canto delle filandaie

Il 2019 sarà ricordato anche per lo sciopero delle donne: qualche decennio fa a pagare il prezzo del progresso in Ticino furono proprio loro
In un’antica foto, ragazzine al lavoro in una filanda lombarda.
Carlo Silini
04.01.2020 06:00

Come zampe di gallina. Così Olga Ceppi, già lavoratrice nella fabbrica per la torcitura Segoma a Capolago descriveva nel 1989 le mani delle operaie in filanda. Colpa delle immersioni dei palmi e delle dita nelle bacinelle d’acqua bollente, il metodo tradizionale per staccare il filo dai bozzoli nella prima fase di lavorazione della seta in fabbrica (tema trattato nelle pagine del CorrierePiù di oggi).

Racconti di pochi decenni fa, ma a ripensarci sembra il Medioevo. Perché, onda verde a parte, nel nostro Paese il 2019 verrà ricordato per lo sciopero delle donne. Un evento estivo capace di spingere in piazza, in strada e nei luoghi di lavoro mezzo milione di persone per rivendicare quella parità di diritti (rispetto ai maschi) che è ancora a metà del guado. Anno positivo, per le donne, anche in politica. Dal 2 dicembre, data d’inizio della 51esima legislatura, in Consiglio nazionale ci sono 84 donne e 116 uomini. La presidente della Commissione federale per le questioni femminili, Yvonne Schärli ha commentato a caldo: «Oggi hanno vinto anche le donne. Finalmente sono meglio rappresentate nella politica svizzera».

Finalmente, sì. Soprattutto se si pensa che molte delle nostre nonne o bisnonne hanno fatto in tempo a vivere sulla propria pelle i peggiori squilibri del mondo del lavoro. “I man i eran cott, la mett da vidé un pulastro che ‘l cös un puu trop: i man i era inscì, perché buivan in da l’acqua 14 o 15 ur par fa che sa distacava un fil”, spiegava Olga Ceppi nel documentario andato in onda quando erano da poco nate le trentenni di oggi.

Che fossero sfruttate non è una consapevolezza recente, lo si sapeva anche allora. All’inizio dell’Ottocento, il politico bernese Bonstätten scriveva che, a causa dei lavori pesanti, le donne ticinesi erano “le bestie da soma di questo Paese”. Certo, non è che per gli uomini la vita fosse meno grama. La miseria aveva spinto fuori dalle valli la maggior parte della forza lavoro e il Ticino dei secoli passati, dissanguato dall’emigrazione maschile, era costretto a reggersi sul lavoro delle donne che, anche nell’agricoltura, alla fine degli anni Venti del Novecento erano ben più presenti degli uomini. Perciò furono loro ad accorrere più numerose nelle prime fabbriche del territorio. E a esservi schiavizzate.

Tra le prime denunce di abusi in fabbrica, in Ticino, molte riguardavano le ragazzine sfruttate in filanda

Per non pensarci, le filandaie lavoravano cantando. “E mi sun chi in filanda e spetti che ‘l vegn sira, che ‘l mè muruus ‘l végna, che ‘l mè muruus ‘l végna (...) accompagnarmi a cà”. Sogni e amori che si consumavano nel fumo degli stanzoni, con loro curve per 14 ore sopra una caldaia in continua ebollizione. Tra le prime denunce di abusi in fabbrica, in Ticino, molte riguardavano le ragazzine in filanda. Nel 1905, il controllore cantonale scriveva che i documenti di identità delle dipendenti presentavano tracce di raschiature delle età delle bambine impiegate alla Segoma. E, uscito nei campi di Capolago dopo i controlli, scopriva una decina di bimbe a cui la direzione aveva chiesto di non dire il nome e l’età se per caso l’avessero incontrato.

La filanda più grande del cantone, la Lucchini di Lugano, era nota per la giovane età delle operaie: nel 1897 vi lavoravano 86 bambine, molte non avevano compiuto i 12 anni anche se la legge federale del 1877 vietava di occupare quelle sotto i 14. Fino al 1898 in Ticino il limite fu comunque abbassato a 12, per combattere la concorrenza italiana che occupava anche piccole di 9 anni. Quando la deroga venne abolita la Lucchini chiuse i battenti e si traferì in Italia.

Se menzioniamo questi fatti non è per sminuire un capitolo della nostra storia, la sericoltura, che dal Settecento a metà del Novecento ha avuto il merito di far passare il Ticino all’industrializzazione portando un po’ di ricchezza anche da noi. Ma per ricordarci che il prezzo del progresso è stato pagato in gran parte dalle donne. Ed è bello pensare che oggi nell’edificio di una delle maggiori ex filande del cantone, a Mendrisio, sia sorto un centro culturale (che dispone di un gruppo di volontari detti «filanderi»). Il luogo delle immani fatiche delle nostre antenate oggi diffonde scienza, conoscenza, consapevolezza. Quasi una nemesi, un atto di giustizia compensativa, per le coriacee nipotine delle filandaie.