Situazioni, momenti, figure

L’Unesco ha iscritto la Cucina italiana nel patrimonio culturale internazionale: accolga anche noi ticinesi

La Svizzera italiana ha portato sulle tavole le invenzioni del bleniese Martino De Rubeis e di Luigi Franconi, di Brissago, celebrato cuoco nella Milano del Risorgimento
Salvatore Maria Fares
Salvatore Maria Fares
13.12.2025 06:00

L’Unesco ha iscritto la Cucina italiana nel patrimonio culturale internazionale. È un riconoscimento che si basa su valori secolari e tradizioni di alta civiltà che hanno segnato la storia. La cucina italiana per storia e usanze, prodotti e piatti, ha certamente un ruolo di alto livello universale, anche quando è riassunta in un piatto di pasta nelle sue numerose varianti. Qualcuno affermò spiritosamente, ma anche realisticamente, che la pasta aveva unito l’Italia più di quanto avevano fatto Garibaldi e i risorgimentalisti. Quel piatto nazionale era il più diffuso comune denominatore fra ricchi e poveri. Oggi si parla di circa cinquanta varianti del piatto «sovrano», una cifra tuttavia indicativa poiché oltre al pomodoro e al formaggio siamo arrivati alla libertà di accostamenti, ultimo dei quali sembra essere quello delle orecchiette al pecorino con i chicchi d’uva passita. Per varie ragioni concrete in questo riconoscimento/premio dell’Unesco dovrebbe essere inserita anche la Svizzera Italiana, che con le sue grandi firme ha portato sulle tavole le invenzioni del bleniese Martino De Rubeis e di Luigi Franconi, di Brissago, celebrato cuoco nella Milano del Risorgimento, il quale, mentre infuocavano le Cinque giornate, pubblicava a Lugano «Il nuovo cuoco ticinese», pieno di esperienza acquisita nella città del Cattaneo, altra grande figura che in quei giorni venne esule a Lugano, dove fu cofondatore del Liceo. De Rubeis, conosciuto come Martino da Torre, attivo in Italia, era cuoco dei papi Paolo II e Sisto IV e di Gian Giacomo Trivulzio e scrisse il primo libro di ricette «De Arte Coquinaria», una pietra miliare. I grandi pranzi e la cucina popolare, le usanze comuni anche alla Svizzera Italiana, con le loro storie e curiosità, sono raccontate da Elma Schena e Adriano Ravera con verve ma soprattutto con uno straordinario inventario di episodi, storie reali, aneddoti e ricette, con riferimenti a vasto raggio, presi nella altrettanto vasta storia che concerne i paesi vicini. Nel suo «piccolo» è curioso e illuminante il volumetto del Franconi che nel 1846 decide di deporre il grembiule e allontanarsi dai fornelli per prendere la penna e sedersi a uno scrittoio per raccontare la sua esperienza fattasi forte a Milano e dedicata «ai lettori che amano mangiar bene», iniziando il suo racconto con la citazione di Socrate che avvertiva che l’appetito acquisito con la passeggiata all’aria aperta è il miglior cuoco. Poi, con prosa quasi poetica in cui volano rondinelle e profumano i campi, entra nella sua raccolta di ricette e le illustra, dandone consigli dettagliati per le preparazioni. La tavola del suo tempo è padroneggiata con arte; dal più scontato dei risotti fino alla folaga alla Napoleone, sorprendendo per l’attenzione che raccomanda alla preparazione e presentazione del piatto che suggerisce servito su crostoni «lavorati a foglia o a cuore». Fa notare che nell’Ottocento i piatti vengono talvolta «rubati» da una corte all’altra e mai scambi furono tanto rapidi, scortati dalla suggestione dei viaggi di commensali, ambasciatori e soldati da una città all’altra. Sorgono così le firme della tavola, la Francia ne è alfiere, l’Italia sventola il suo Pellegrino Artusi. All’inizio del Novecento anche a New York, come oggi, si mangiava di lusso all’italiana, con abili cuochi immigrati o con nascenti imitatori destinati al successo. Dal Ticino, da Mairengo, erano partiti i Delmonico, aprendo pasticceria e ristori, poi Lorenzo Delmonico aprì il ristorante destinato a diventare il più celebre e fra i più elevati d’America, meta di statisti, milionari, artisti e di celebrità, per mangiare nel quale occorrono ancora oggi settimane di attesa. Delmonico ebbe grande intuizione, lo aprì con cucina all’italiana perché aveva capito che il pubblico del teatro dopo essersi goduto le opere di Puccini, Verdi, Rossini e Donizzetti voleva mangiare all’italiana. Toscanini, Puccini e Belasco nel 1907, per la prima della Butterfly, si sedettero al tavolo e mangiarono all’italiana. Puccini quando a Vacallo componeva Manon Lescaut mangiava come a casa sua. La storia e il patrimonio della gastronomia italiana dovrebbero comprendere - per cultura e tradizione e non per politica e confini doganali - anche i gioielli culinari della Svizzera Italiana. Tutto il Ticino ha avuto i suoi maestri della tavola, dalla valle di Blenio alla Leventina, emigrati, da Est a Ovest, come i Magistri comacini e gli architetti.