Politica universitaria

L’USI e i cordoni della borsa

Il commento di Claudio Mésoniat, direttore editoriale de ilfederalista.ch, già direttore del Giornale del Popolo
Claudio Mésoniat
Claudio Mésoniat
17.02.2020 06:00

Quando il Ticino, Penelope indefessa che per un secolo e mezzo aveva tessuto e disfatto la tela del suo sogno universitario, riuscì poco meno di 25 anni fa a mandare a dama il progetto dell’USI fu per me una grande gioia. L’importante era avercela, l’università. Era, in quel settembre 1996, una cerbiatta traballante sulle sue fragili gambe, ma sarebbe cresciuta, com’era iscritto nel suo DNA. Ed è cresciuta mantenendo le sue promesse, come molti parametri attestano. Non era stata pensata, ad esempio, per «tenere gli studenti ticinesi in un Ticino provinciale», come gli avversari del progetto ammonivano, ma se mai per sprovincializzare il Ticino: e oggi l’USI è nel mondo il secondo ateneo per internazionalità. Non ha succhiato soldi al Cantone, come paventava tanta politica miope, ma se mai ne ha portati se è vero, com’è documentato, che oggi un franco investito nell’USI ne genera oltre tre di indotto; per non dire dei milioni che i suoi progetti di ricerca convogliano da Berna verso il Ticino. Soprattutto è cresciuta senza tradire la sua natura di luogo di incontro tra uomini di studio, luogo di ricerca, luogo formativo di alto livello.

C’era poi una ragione di politica culturale, tanto cruciale quanto negletta, che imponeva la nascita di una vera università: la salvaguardia dell’italianità in Svizzera. Un territorio la cui lingua non abbia accesso agli alti livelli della ricerca, della didattica, della formazione è un territorio subalterno, inevitabilmente debitore sul piano culturale di altri territori. Senza l’USI, l’italiano in Svizzera sarebbe rimasto una lingua di seconda categoria, subalterna alle altre lingue nazionali.

Ero certo, in quel settembre 1996, che le potenzialità contenute nel patrimonio genetico dell’università nascente si sarebbero attuate di anno in anno, come sta accadendo, com’ero certo che il Paese si sarebbe accorto con fierezza di aver compiuto un passo decisivo.

Ma oggi sembra che questa presa di coscienza non sia ancora avvenuta. Sarà vero? Forse sì, se a rilevarlo è l’attuale rettore dell’USI, tra i più vivaci e intraprendenti nella breve storia del nostro ateneo (ma sono stati tutti eccellenti). Boas Erez l’ha scritto sulle colonne del CdT, aprendo un dibattito che è continuato con Tito Tettamanti e Franco Cavalli. Il primo ha raccolto la provocazione discreta del rettore, accostando l’istituto universitario ad altri soggetti culturali presenti nella Svizzera italiana, dal LAC alla RSI, e raccomandando vigilanza su possibili derive ideologiche, che francamente per l’USI non mi paiono all’orizzonte. Il secondo ha affondato la lama, com’è suo temperamento, nelle titubanze di una classe politica ticinese ancora inconsapevole di avere tra le mani uno straordinario strumento di crescita culturale ed economica per tutto il cantone. A me pare che abbia messo il dito nella piaga. Ma prima di dargli man forte vorrei mettere meglio a fuoco alcuni suoi accenni sull’origine dell’USI nel contesto culturale e politico ticinese.

Tracciato il consueto quadro di un Ticino che transita dalla campagna alla banca, privo di una classe politica borghese lungimirante, Cavalli escogita la categoria di «irripetibile inciucio» per capacitarsi di come alcuni eredi di quella rissosa classe politica nei primi anni Novanta accettano la sfida, si accordano e si assumono il rischio di assecondare un progetto che solo a posteriori si rivelerà vincente.

È un interrogativo anche per me. Qualche elemento utile per costruire una risposta ce l’avrei; ma forse è troppo presto ancora per fare storia. Cavalli una risposta la tenta. Solo un paio di appunti.

Vero che la crisi economica che scuoteva il Paese in quel torno di anni abbia provocato l’ingegno e la creatività di alcuni uomini politici e di cultura appartenenti a tradizioni diverse. Vero che un insolito dialogo costruttivo tra loro li fece convergere su un progetto comune molto ambizioso (prima ancora di dissuadere le principali forze politiche dall’erigere le consuete barricate referendarie). Cavalli chiamerebbe oggi «inciucio» il lungo lavoro di preparazione (cui ha preso parte) e l’accordo che ha reso possibile la creazione della nuova Facoltà di biomedicina? La politica fu necessaria allora come oggi per far giungere in porto l’operazione, ma la pentola in cui l’USI è stata cucinata non fu anzitutto politica ma culturale e scientifica e l’ideazione del progetto si giocò in un crogiolo di rapporti personali e di amicizie assai più che nelle segreterie partitiche e nelle aule legislative.

Ma veniamo alla convincente diagnosi del celebre oncologo, come pure alla terapia che egli suggerisce.

1) Cavalli individua la causa prima dell’odierno scarso interesse generale per l’USI in un certo freddo distacco del nostro Esecutivo: «La situazione cambierebbe - scrive - se il Governo cantonale mostrasse finalmente di interessarsi a fondo delle nostre strutture accademiche». Azzeccato. Ma l’invito andrebbe rivolto anche ai partiti e a tutta la politica in generale. A giudicare dalla campagna per le ultime elezioni cantonali l’università è come se non esistesse. Eppure l’USI si trova a un tornante cruciale della sua esistenza (Facoltà di biomedicina).

2) Il dottore affonda poi il bisturi elencando le prove tangibili di questo disinteresse. E le cifre sono impressionanti, e imbarazzanti. Il nostro Cantone investe 23,4 milioni l’anno nell’USI (compresi gli istituti affilati, come IOR e IRB), quando un piccolo Cantone come Neuchâtel (metà della popolazione del Ticino) ne investe 47 per la sua Università. L’USI riceve più soldi da altri enti (tra cui l’Europa), oltre 50 milioni.

3) La terapia? Considerato che, con questi chiari di luna, l’oncologo paventa «gravi conseguenze per la sostenibilità del progetto di sviluppo della Facoltà di biomedicina» che, a suo parere, rappresenta «il progetto principale di sviluppo del cantone», la cura prescritta è semplice ed è contenuta nel titolo stesso del suo articolo: «Apriamo i cordoni della borsa».

Aggiungo che la spesa annua pro capite per la cultura ammonta in Ticino a 395,1 franchi, quando la media nazionale si fissa a 314,9. Dati USTAT che non comprendono l’USI. Domina oggi una riduzione di «cultura» al suo consumo estetico e intellettuale. Il maggior contributo del Ticino alla lingua e cultura italiana in Svizzera è la nostra Università, alla quale il Cantone non dovrebbe lesinare i contributi, nel rispetto della libertà accademica, come pretendono tutte le altre espressioni culturali (dal LAC al Festival del film).