L'utopia di un emirato caucasico

di SERGIO ROMANO - I mezzi d?informazione inseguono gli avvenimenti da un continente all?altro e possono dare talvolta la falsa impressione che una crisi temporaneamente dimenticata sia una crisi risolta. È accaduto negli scorsi giorni quando due sanguinosi attentati, a Mosca e in una città del Daghestan, hanno ricordato al mondo l?esistenza di una guerra caucasica, combattuta da gruppi di guerriglieri, forze speciali, terroristi suicidi e «vedove di Allah». Ci eravamo distratti perché la stabilità politica in Cecenia, la ricostruzione di Grozny e i successi vantati dal governo russo avevano indotto nella pubblica opinione il sentimento che la fase peggiore della crisi fosse stata superata e che questa repubblica autonoma, addossata alle pendici del Caucaso settentrionale, avesse imboccato la strada della pacificazione. Era soltanto una illusione, provocata in buona parte dall?attenzione che stampa e televisione avevano dedicato ad altri avvenimenti più recenti e drammatici. Coloro che seguono le vicende della regione sapevano che vi erano stati numerosi attentati contro le forze di polizia soprattutto in Daghestan e Inguscezia. Gli osservatori più attenti avevano raccolto dati molto preoccupanti: contro i 506 morti del 2008, il 2009 ne aveva contati 916, di cui 280 in Cecenia, 319 in Inguscezia e 263 in Daghestan. La Cecenia e i suoi vicini restano il maggiore problema della Russia di Putin e Medvedev. Mentre gli Stati Uniti combattono il fanatismo islamico in Iraq, Afghanistan e Pakistan, la Russia deve combatterlo all?interno delle proprie frontiere e lo ha fatto, prima dell?inizio della presidenza Medvedev, con una durezza poliziesca che ha avuto l?effetto di rendere la resistenza ancora più accanita e crudele. Alle origini di questa resistenza vi è il vecchio nazionalismo di popoli che non hanno mai interamente accettato il dominio russo e impugnano le armi ogniqualvolta il loro grande vicino attraversa una crisi di assestamento. È accaduto dopo la rivoluzione bolscevica, durante la guerra civile fra Rossi e Bianchi. È accaduto durante la Seconda guerra mondiale quando le popolazioni del Caucaso accolsero i tedeschi come liberatori. È accaduto più recentemente, dopo il collasso dell?Urss, quando Mosca dette la sensazione di non potere controllare i numerosi movimenti separatisti del suo immenso territorio. La religione sopraggiunge più tardi e serve soprattutto a rafforzare l?identità dei combattenti, reclutare nuove leve, creare spirito di sacrificio, suscitare le simpatie e la solidarietà dell?Islam. Né Shamil Basaev, regista della strage della scuola di Beslan e ucciso dalle forze di sicurezza russe, né Daku Umarov, autoproclamato leader della guerriglia nell?intero Caucaso settentrionale, possono essere considerati musulmani alla maniera di Ayman Al Zawahiri, ideologo di Al Qaida e braccio destro di Osama bin Laden. Ma la bandiera verde del profeta permette a Umarov di conferire una certa legittimità al suo progetto: la creazione di un emirato del Caucaso settentrionale. È la stessa parabola politica di un giovane turco, Enver Bey, che combatté gli italiani in Libia nel 1912, fu ministro della Guerra in Turchia alla vigilia del primo conflitto mondiale e terminò la sua vita nel 1922 combattendo nel Turkestan alla testa di un?armata musulmana. La creazione dell?emirato caucasico è soltanto una utopia. Le popolazioni caucasiche sono troppo fiere e coraggiose per tollerare la dominazione russa, ma tropo divise e anarchiche per creare istituzioni stabili. Pur senza raggiungere lo scopo proclamato, gli ultimi attentati, tuttavia, potrebbero avere effetti negativi per la Russia e l?intera Europa. Potrebbero sabotare gli sforzi con cui Medvedev ha cercato di creare nel suo paese uno Stato di diritto e ridare legittimità alla spietata politica repressiva e poliziesca con cui Putin ha trattato la questione cecena durante la sua presidenza.