Il commento

Ma il declino non è americano

Spesso si parla «forse impropriamente» del declino americano e si trascura la realtà di un declino, ben più significativo, quello dell’economia europea
Alfonso Tuor
23.05.2024 06:00

Spesso si parla «forse impropriamente» del declino americano e si trascura la realtà di un declino, ben più significativo, quello dell’economia europea. La spiegazione, che va per la maggiore, è che il Vecchio Continente ha dovuto recentemente superare una serie di crisi economiche e soprattutto politiche che vanno dallo scoppio della pandemia all’invasione russa dell’Ucraina, che ha provocato un’esplosione dei prezzi dei beni energetici e quindi l’impennata dell’inflazione con il conseguente forte aumento del costo del denaro. I dati sono impietosi dall’arrivo del Covid fino al primo trimestre di quest’anno l’economia americana è cresciuta dell’8,7%, mentre quella dei Paesi dell’eurozona del 3,4%, ossia la metà del PIL statunitense. Nel frattempo è il reddito pro capite (calcolato in base al potere d’acquisto) è calato di un terzo rispetto a quello americano. Il motivo è dovuto soprattutto al fatto che Washington ha fatto correre il debito pubblico per finanziare la crescita e anche per sussidiare per circa 1.000 miliardi di dollari la reindustrializzazione del Paese grazie all’Inflation Reduction Act per incentivare gli investimenti verdi e il Chips Act teso a favorire gli investimenti sul suolo nazionale della produzione dei semiconduttori. Inoltre ha potuto approfittare delle sanzioni contro il petrolio e il gas russi per vendere questi prodotti in Europa a prezzi nettamente superiori a quelli garantiti da Mosca. Ma questa giustificazione non tiene. Uno studio di due ricercatori del Consiglio europeo per gli affari esteri mette in luce che l’economia di Eurolandia e quella americana hanno cominciato a divergere ben prima, ossia dalla crisi finanziaria del 2008. Infatti allora il PIL europeo era maggiore di quello statunitense (il primo ammontava a 16,2 mila miliardi di dollari contro 14,7 mila del secondo). Quindici anni dopo la crisi finanziaria la situazione si è rovesciata: la dimensione dell’economia europea è di 25 mila miliardi di dollari mentre quella europea (compresa la Gran Bretagna nel frattempo uscita dall’UE) ammontava a 19,8 mila miliardi. Quindi, se si esclude il PIL britannico, l’economia americana è addirittura più grande del 50% di quella europea. Pure altri dati, come quello molto importante dell’aumento della produttività, confermano queste tendenze.

Ora a una decina di giorni dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo la discussione sui provvedimenti da adottare per rilanciare l’economia del Vecchio Continente stenta a decollare. Le ricette, che vanno per la maggiore, sono quelle già adottate da Washington: sussidi agli investimenti industriali e protezionismo. Queste misure si scontrano gli interessi divergenti dei Paesi membri dell’UE. Infatti i sussidi possono farli sono gli Stati con i conti relativamente in ordine, come la Germania che ha già imboccato questa via, ma diventano impraticabili per gli Stati con i conti in profondo rosso; anche le misure protezionistiche non raccolgono l’unanimità. Infatti esse sono mirate soprattutto contro il terzo grande «incomodo» sulla scena mondiale, ossia la Cina, osteggiate da Berlino, poiché il Paese asiatico rappresenta un grande mercato di sbocco per l’export tedesco. Anche la speranza di un rilancio grazie alle nuove tecnologie, come l’Intelligenza Artificiale, sembra infondata poiché in questo campo il Vecchio Continente è in ritardo rispetto agli Stati Uniti e rispetto alla Cina. Se si aggiungono i problemi derivanti dall’afflusso dei migranti, dagli obiettivi del Green Deal e dalla speranza di un riarmo europeo si capisce che i conti non quadrano. E non solo i conti pubblici non quadrano, ma anche quelli politici per la crescente insoddisfazione della popolazione che vede erodersi continuamente il proprio potere d’acquisto. La debolezza dei Governi e le crescenti tensioni tra i Paesi europei non inducono a ritendere che l’Europa possa essere un protagonista della costruzione dei nuovi assetti mondiali che si definiranno nei prossimi anni. Quindi se non vi saranno svolte politiche nei prossimi mesi, l’Europa rischia di avere solo un ruolo subalterno.