Mario Draghi e la politica della BCE

L'EDITORIALE DI FERRUCCIO DE BORTOLI
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
19.06.2018 06:00

DI FERRUCCIO DE BORTOLI - Nel novembre del prossimo anno Mario Draghi lascerà la presidenza della Banca centrale europea. La lotta per la successione è già aperta. Con eccessivo anticipo. Draghi dovrà pilotare nel frattempo la progressiva uscita dal programma di quantitative easing (QE) che, dal 2015 al 2018, ha portato all'acquisto di titoli pubblici e privati dei Paesi aderenti alla moneta unica per complessivi 2 mila 500 miliardi di euro. Il QE finirà ufficialmente il 31 dicembre di quest'anno. Una massiccia e controversa iniezione di liquidità che ha aumentato di ben quattro volte il bilancio della banca centrale. Ma ha sostenuto la crescita (oggi al 2,4 per cento nell'Eurozona) e avvicinato l'inflazione all'obiettivo del 2 per cento (la stima della BCE per il 2018 è all'1,7 per cento). Gli acquisti saranno ridotti da 30 a 15 miliardi al mese, mentre la politica dei tassi bassi o negativi tenderà ad esaurirsi con maggiore lentezza. C'è un particolare nella ritirata dal quantitative easing che potrà ammorbidire i possibili contraccolpi: ancora per un po' di tempo la BCE reinvestirà i proventi dei titoli in scadenza nel Paese che li ha emessi. Lo stock di titoli acquistati dunque non diminuirà subito. L'ombrello monetario resterà sostanzialmente aperto anche dopo la scadenza ufficiale del QE. Qualcosa di analogo era accaduto con il parallelo programma di acquisti della Federal Reserve. Dal 2009 al 2014 la banca centrale americana aveva creato moneta per 3 mila 500 miliardi di dollari. Il cosiddetto tapering, con la riduzione dei titoli in portafoglio, è stato avviato solo di recente. Dollaro ed euro torneranno lentamente a confrontarsi sui mercati senza gli effetti degli interventi delle due banche centrali. Il primo sembra destinato a rafforzarsi sul secondo. Un euro più debole appare peraltro un'indiretta risposta ai dazi americani. Non dispiace. L'allargarsi di una tendenza protezionista sui mercati non potrà che riflettersi su un progressivo nervosismo dei tassi di cambio, ammesso che le regole di base dell'economia funzionino ancora. Le scelte di Draghi sono state molto contestate. Soprattutto in Germania, che pure ne ha beneficiato per ridurre a tassi negativi il proprio debito pubblico. La Bundesbank di Jens Weidmann si è spesso opposta alle decisioni del board di Francoforte. L'indipendenza della banca centrale è stata comunque sempre difesa dalla cancelliera tedesca Angela Merkel: è uno dei suoi tanti meriti. La politica monetaria espansiva avrebbe dovuto favorire il completamento delle riforme strutturali in diversi Paesi dell'Eurozona. Non è andata proprio così. E non solo in Italia dove gli acquisti di titoli pubblici, fatti dalla Banca d'Italia per conto dell'Eurosistema, hanno raggiunto nell'aprile scorso i 300 miliardi. Ora si pone il problema di chi li sottoscriverà, e con quali tassi, in futuro. Le banche italiane appaiono più prudenti negli acquisti. Soprattutto se dovesse prevalere, in sede di riforma dell'Eurozona, la proposta tedesca e dei Paesi del Nord di non considerare più senza rischi i titoli pubblici detenuti in portafoglio dagli istituti di credito. Il quantitative easing ha consentito all'Italia di ridurre la spesa per interessi di diverse decine di miliardi. Ma il debito pubblico ha continuato ad aumentare. E la colpa non è certo dei due partiti populisti oggi al governo. Il debito è sceso leggermente, al 131,8 per cento nel rapporto con il Prodotto interno lordo, solo nel 2017. L'eccesso di liquidità è certamente un problema dell'economia mondiale. Alimenta bolle finanziarie di cui si stenta, nonostante si viva in una stagione di algoritmi intelligenti, a valutare la portata. I tassi negativi non sono l'ideale per selezionare al meglio gli investimenti e compromettono la sostenibilità dei sistemi di welfare e dei piani pensionistici. Ma occorre chiederci, nel momento in cui lo stimolo monetario di Draghi tende ad esaurirsi, che cosa sarebbe accaduto all'economia europea, non solo all'Eurozona, se la BCE non avesse agito per tempo contro lo spettro della deflazione. E non solo sul versante economico ma anche nel suo riflesso politico. Dopotutto la vera svolta è avvenuta senza spendere un euro. Il 26 luglio del 2012 Draghi pronunciò la famosa frase: «Whatever it takes». Ovvero disse che la BCE avrebbe fatto tutto il necessario per sostenere l'euro. Allora si dubitava addirittura della sua sopravvivenza. Sono passati sei anni. Si è superata la crisi debitoria greca, affrontata l'emergenza italiana del 2011. Sembrano decenni. La virtù di un banchiere centrale non si misura dalla pur ipertrofica dimensione del proprio bilancio, ma dalla credibilità delle sue parole. La certezza di sapere che c'è. E i mercati, pur potenti, si adeguano. Scommettere contro il banco non conviene mai. A patto che il banco ci sia o non sia distratto.

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