Mario Ferrari, socialista pragmatico e del buon senso

di FABIO PONTIGGIA - Ci ha lasciati anche Mario Ferrari. Improvvisamente. Troppo presto: aveva solo 71 anni e non li dimostrava. Era ancora impegnatissimo e attivissimo, come è sempre stato lungo tutta la sua carriera politica e professionale. Per lunghi anni deputato in Gran Consiglio, ha vissuto il travaglio della riunificazione socialista tra PST e PSA. Venne eletto nel Parlamento cantonale proprio nella legislatura (1983-1987) in cui quel processo prese le mosse, sfociando nella clamorosa doppia elezione di Rossano Bervini e Pietro Martinelli in Consiglio di Stato. Mario Ferrari seguì la vicenda senza fare l'incendiario e senza esporsi troppo. Non per opportunismo, bensì perché le sue cifre erano non l'ideologia né il settarismo, ma il pragmatismo e il buon senso. La capigliatura e la barba ricciolute e brizzolate lo rendevano incredibilmente somigliante a Carlo Marx, ma l'apparenza ingannava, e parecchio. Pragmatismo e buon senso hanno ispirato la sua azione sia nel sindacato dei servizi pubblici in cui ha lavorato per anni, sia, come detto, nelle istituzioni (era anche consigliere comunale in carica a Mendrisio), sia, infine e soprattutto, in ambito sociale, in particolare nella Fondazione Diamante, di cui è stato per quasi due decenni direttore. Ha ricoperto anche la carica di vicepresidente dell'EOC. La sua era una visione genuinamente solidaristica della società, statalistica ma senza dogmi, con l'obiettivo fondamentale di creare opportunità anche e soprattutto per i meno favoriti, primi fra tutti i disabili. Alla realizzazione di questa visione e al raggiungimento di questo obiettivo Mario Ferrari ha finalizzato il suo impegno nei disparati ambiti di cui si è detto, con proposte concrete, senza voli pindarici, confrontandosi comunque con il severo esercizio della quadratura dei conti, cioè con l'imperativo di rendere sostenibile il rapporto fra spese ed entrate, fra costi e benefici. Non gli piacevano certamente i lunghi dibattiti e confronti sul risanamento delle finanze cantonali, sui risparmi da effettuare per evitare il sovraindebitamento dello Stato. Ma, come direttore di un'impresa, sociale sì, ma sempre impresa, quale è la Fondazione Diamante, era ben conscio che con le cifre rosse non si costruisce nulla di solido e di duraturo. Nei suoi articolati interventi in Gran Consiglio si è sempre dimostrato molto documentato: gli ideali erano certamente per lui il sale dell'impegno politico, ma entro i limiti dettati dalla realtà - a volte dura - dei fatti. In questa cornice di valori e di metodo va letta la sua attenzione in più direzioni: dalla scuola all'assistenza sociale, dal territorio al turismo, dalla politica sanitaria all'imprenditorialità (nel 1996 presentò ad esempio una mozione per una legge sull'imprenditorialità giovanile; fu uno dei primi politici a sollevare la questione della successione nelle imprese familiari; e propose la creazione di una Borsa per la trasmissione dell'impresa). Senza dimenticare i problemi più locali, quelli relativi al suo Mendrisiotto, che lo hanno impegnato fino all'ultimo. Lontanissima dalla sua concezione era la politica dell'apparire, fondata sui vuoti proclami, cioè sul nulla. Per questo da qualche anno scuoteva sempre più spesso il capo, in segno di dissenso.