Non bisogna nascondersi dietro un dito

di GIOVANNI GALLI - Il funerale anticipato che il presidente del Governo Norman Gobbi ha fatto ai negoziati sull'imposizione dei frontalieri ha creato imbarazzo e tensioni all'interno dell'Esecutivo. Visti il ruolo istituzionale, la delicatezza del tema e il fatto che le trattative sono di competenza della Confederazione, il ministro leghista è effettivamente andato lungo. Ma non bisogna nemmeno nascondersi dietro un dito. Quello che Gobbi ha detto nell'intervista alla NZZ, ben consapevole dei malumori che avrebbe suscitato, rappresenta il pensiero di buona parte della classe politica cantonale. «L'Italia non è la Germania o la Francia, bisogna capire la furbizia e l'abilità degli italiani», aveva dichiarato negli scorsi giorni al CdT il consigliere nazionale popolare-democratico Fabio Regazzi. «Purtroppo abbiamo fatto troppe concessioni senza chiedere adeguate contropartite. E la frittata è ormai fatta. L'atteggiamento è stato ingenuo e ora l'Italia detta le condizioni e fa i capricci». Ma obiezioni alla linea di Widmer-Schlumpf, sebbene con toni diversi, vengono sollevate da quasi tutte le forze politiche, ad eccezione del Partito socialista. Critiche e perplessità sui termini del nuovo accordo sopravanzano ormai gli appelli alla fiducia. I risultati, pur provvisori, non rispecchiano le aspettative e gli obiettivi che avevano accompagnato l'inizio delle discussioni. Secondo la road map firmata a Milano, il Ticino avrebbe la facoltà di tassare i frontalieri nella misura del 70%, i ristorni sarebbero aboliti, mentre ai lavoratori italiani della fascia di confine, ora esenti da imposte sul reddito in Italia, verrebbero progressivamente applicate aliquote ordinarie (molto più alte) con la detrazione di quanto già versato in Svizzera. In soldoni, il Ticino incasserebbe 15 milioni in più. E beneficerebbe, indirettamente, del nuovo regime, perché certi frontalieri, tartassati nel loro Paese, non avrebbero più interesse a venire a lavorare a salari da fame, precarizzando il mercato del lavoro. In realtà la situazione è più complessa. L'Italia potrebbe incassare oltre 400 milioni di franchi. E fin qui niente da dire. Anzi, più incassa, meglio dovrebbe essere per la lotta al dumping salariale nel cantone. Chi si indigna per i soldi che andrebbero a Roma è fuori strada, visto che è stato il Ticino a fare questa richiesta. Ci sono però due problemi. Il primo è che nonostante la sproporzione fra i benefici, non ci sia verso di ottenere di più. Con un incasso così forte da parte italiana, la richiesta ticinese di imporre i frontalieri in ragione dell'80% è più che giustificata e andrebbe assecondata con maggiore ostinazione negoziale. Il secondo è che l'Italia intende applicare solo progressivamente – un termine un po' vago – le sue aliquote ordinarie ai frontalieri della fascia di 20 chilometri (gli altri pagano già ora fino all'ultimo euro). Se la Svizzera vuole che la nuova imposizione ottenga gli effetti sperati sul mercato del lavoro, dovrebbe pretendere che venga applicata da subito o per lo meno con scadenze vincolanti. Stando così le cose, invece, nulla vieterebbe all'Italia, per calcolo politico-elettorale, e a costo di incassare meno di quanto potrebbe, di diluire a discrezione l'entrata in vigore del nuovo regime fiscale. Fra incertezze e continui rinvii, non bisogna quindi sorprendersi dell'uscita di Gobbi. Roma ha già ottenuto quello che voleva con lo scambio di informazioni su domanda e, dal 2018, con quello automatico. Sui frontalieri e su altre questioni aperte, come l'accesso al mercato italiano dei servizi finanziari, i negoziatori si sono presentati a mani praticamente vuote senza ottenere adeguate contropartite. L'Italia può invocare ogni pretesto per non concludere, ultimo in ordine di tempo il non problema del casellario giudiziale. Ma se la prospettiva è di subire e di girare infruttuosamente a vuoto, ha ragione chi dice che nessun accordo è meglio di un cattivo accordo. Dopotutto, non si vede come le Camere, un domani, possano approvare un'intesa internazionale sul Ticino che il Ticino, per primo, sembra non volere.