Obama, lacrime e utopia

di GERARDO MORINA - Parlando sabato scorso alla nazione dalla East Room della Casa Bianca, il presidente Barack Obama ha denunciato il fatto che «trentamila americani vengono uccisi ogni anno con armi da fuoco e gli Stati Uniti non sono l'unico Paese al mondo che annovera individui violenti ma il solo dove la violenza delle armi si scatena così spesso». Ma quando il discorso ha toccato il tasto dei bambini uccisi nelle scuole, le valvole lacrimali del presidente non hanno più tenuto e tra pause e sospiri la sua voce si è incrinata, dando libero corso a rivoli che solcavano le sue guance. Non è stata certo la prima volta che il presidente si è commosso in maniera così plateale. L'aveva già fatto in altre circostanze, prima fra tutte all'indomani della sua conferma alla Casa Bianca. Se, al di là della naturale commozione di un uomo che vede avvicinarsi la fine del suo mandato e decide di rinunciare finalmente ai freni inibitori imposti da motivi elettorali, si vuole dare un connotato al cedimento di sabato, occorre ammettere che si è trattato essenzialmente di lacrime che denotano tutta l'impotenza della carica presidenziale nel risolvere una delle piaghe più ignobili che affliggono gli Stati Uniti. Obama ha colto l'occasione per annunciare nuove «executive actions», decreti articolati in dieci punti, cercando di bypassare il Congresso e incentrati soprattutto su controlli più severi di «background», cioé sui precedenti penali o sulle malattie mentali di chi intende acquistare un'arma. Un giro di vite decisamente modesto, se si considera che le misure non riusciranno a ridurre il numero di armi in circolazione, più di una per ogni abitante del Paese, a cui corrisponde un trend di vendita che risulta paradossalmente in aumento anche di fronte alle morti causate da armi da fuoco. È un segno di un profondo scollamento tra l'utopia di chi vorrebbe arginare il fenomeno (un recente sondaggio della CNN parla di un 48% degli americani in favore di maggiori controlli, contro un 51% che vi si oppone) e la realtà costituita da chi si schiera a difesa del Secondo Emendamento della Costituzione che sancisce la libertà di ogni cittadino di procurarsi un'arma. Si tratta di un emendamento scritto dai Padri Fondatori quando c'erano ben altre esigenze, non solo ai tempi della Frontiera e del selvaggio Far West, ma durante la guerra d'indipendenza, epoca in cui all'America importava mobilitare le milizie popolari per combattere l'esercito britannico. Al di fuori dei confini degli Stati Uniti si rivela spesso difficile comprendere l'importanza di un simile diritto, concepito come un atto di autonomia del cittadino chiamato ad autodifendersi da ogni intrusione governativa. È la stessa ragione per cui è altrettanto arduo capire per chi non sia americano che per lo stesso motivo la legge sulla Sanità pubblica varata da Obama incontra a tutt'oggi numerosi oppositori. A un problema che è da considerarsi prima di tutto di natura culturale, vanno poi aggiunte difficoltà legate all'ambito politico e istituzionale del Paese. La lobby dei fautori delle armi non è rappresentata solo dalla potente (5 milioni di iscritti) National Rifle Association con capillari addentellati al Congresso,ma anche da un partito trasversale che unisce democratici, repubblicani, indipendenti e apolitici. In questo campo il potere decisionale di ogni presidente risulta parecchio limitato, legato alla scarsa validità dell'«executive action», ovvero il decreto emesso per far funzionare meglio lo Stato, in confronto invece all'«executive order» che ha pieno valore di legge. Nel caso delle armi il diritto dei cittadini a possederle è sancito dalla Costituzione e di conseguenza i presidenti non possono abolirlo o vietarlo, ma solo cercare di regolamentarlo. E neppure esistono le condizioni per una diversa interpretazione del Secondo Emendamento da parte della Corte Suprema. Per varare limitazioni più drastiche occorrerebbe un voto del Congresso. Ma il Congresso attuale, a maggioranza repubblicana, si è sempre rifiutato di considerarne l'opportunità. Ogni tentativo di compromesso come quello messo in campo da Obama nel 2013 si è risolto nella più bruciante sconfitta politica del presidente.