Più che a un'intesa, l'accordo tra USA e UE somiglia a una resa

Quello firmato domenica pomeriggio tra Stati Uniti e Unione Europea è più una resa che un’intesa. L’accordo, presentato come uno strumento per limitare i danni derivanti dalla politica commerciale protezionista inaugurata — lo ricordiamo — dalla prima amministrazione Trump e proseguita con la seconda, è, al di là delle rassicurazioni della burocrazia di Bruxelles, chiaramente sbilanciato a favore di Washington. Le tariffe doganali sulle merci europee (incluse le automobili, ma esclusi acciaio e alluminio) che attraverseranno l’Atlantico saranno fissate al 15%, evitando il temuto 30% generalizzato minacciato appena due settimane fa. Si tratta tuttavia di una cifra che si avvicina al 21% evocato lo scorso 2 aprile nel Giardino delle Rose della Casa Bianca (il cosiddetto “Liberation Day”) e che resta comunque tripla rispetto al circa 5% medio in vigore fino a pochi mesi fa.
Limitare i danni potenziali di una guerra commerciale attraverso una tregua sostanzialmente unilaterale — perché tale è, nei fatti, quella sancita dalla stretta di mano tra Trump e von der Leyen — può essere visto come un successo per l’UE, che ha preferito salvaguardare il rapporto con l’alleato nordamericano, ben oltre le sole relazioni economiche. Considerata l’attuale situazione geopolitica, con la guerra russa in Ucraina ancora lontana dalla conclusione, Bruxelles non dispone di veri margini di autonomia per sviluppare alternative strategiche, ad esempio una difesa comune indipendente dalla NATO, di cui gli Stati Uniti sono il principale sostenitore e finanziatore.
A dimostrazione delle concessioni europee, Bruxelles si è impegnata ad azzerare i cosiddetti “dazi di disturbo”, compresi tra il 2% e il 4% — troppo bassi per proteggere realmente i settori interessati — su diversi prodotti agricoli e ittici statunitensi, nonché su automobili e altri beni industriali. Le tariffe americane, definite dall’amministrazione Trump come “reciproche”, restano nei fatti unilaterali. A ciò si aggiungono gli impegni europei ad aumentare di 600 miliardi di euro (circa 558 miliardi di franchi) gli investimenti diretti negli Stati Uniti e ad acquistare fino a 750 miliardi di euro (circa 698 miliardi di franchi) in gas, petrolio e armamenti. Tutto ciò rende evidente quanto l’accordo penda a favore di Washington e quanto l’obiettivo primario di Bruxelles fosse quello di garantire stabilità e prevedibilità nei rapporti economici, preferendo una “pace commerciale” sbilanciata a una guerra tariffaria che avrebbe avuto effetti ben più dannosi e duraturi.
La lista di contromisure europee, annunciata la scorsa settimana e comprendente dazi su beni statunitensi come jeans, motociclette e burro di arachidi per un valore di 93 miliardi di euro, si è rivelato con ogni probabilità solo un atto simbolico destinato a essere accantonato.
E la Svizzera? La Confederazione è ancora in attesa del suo turno, con l’urgenza dettata dal fatto che i dazi punitivi unilaterali imposti da Washington dovrebbero entrare in vigore il 1° agosto. La scorsa settimana si riteneva imminente un annuncio di accordo bilaterale, simile a quello firmato lo scorso maggio tra Stati Uniti e Regno Unito. È probabile che l’intesa appena siglata con l’UE possa fungere da modello anche per l’export elvetico, dominato da settori come orologeria, macchinari di precisione, tecnologia medica e farmaceutica. Proprio quest’ultimo comparto, nell’ambito dell’accordo UE-USA, non è stato toccato da nuove tariffe. In ogni caso, se Washington dovesse decidere di tassare i medicinali importati, l’aliquota non dovrebbe superare il 15%. Il condizionale è d’obbligo, visto che il presidente Donald Trump ha dato prova fino a oggi di estrema volubilità.
Il Consiglio federale, in linea con Bruxelles, ha ribadito fin dall’inizio della saga dei dazi che non intendeva adottare misure di ritorsione nei confronti degli Stati Uniti, giudicando uno scontro commerciale controproducente. Le principali associazioni industriali, come Economiesuisse, hanno accolto positivamente l’intesa UE-USA, ritenendola una soluzione che, pur imperfetta, contribuisce a contenere i danni complessivi e riduce il rischio di una pericolosa escalation. Con la valuta statunitense in calo rispetto a euro e franco svizzero, però, le esportazioni europee e svizzere rischiano di perdere ulteriore competitività, vanificando parte dei benefici di questo compromesso. Anche senza una guerra dei dazi, il cambio rischia di trasformare la “pace commerciale” in una vittoria a metà per le imprese del Vecchio Continente, Svizzera compresa.