Pensieri dal battellino

Prima i nostri

Dalla «pizza del cambiamento infornata da Piero e Paolo», cioè da Marchesi e Pamini, al vescovo di Lugano che deve essere ticinese
Bruno Costantini
18.03.2023 06:00

Ieri sera Asia avrebbe voluto andare a Losone per mangiare, come da annuncio, la «pizza del cambiamento infornata da Piero e Paolo», cioè da Marchesi e Pamini, per fare il confronto con il «risotto della continuità» che l’indefesso Norman Gobbi seguita a cucinare in tutti gli angoli del cantone. Questa variante incruenta della faida casalinga tra democentristi e leghisti si inserisce perfettamente nell’epoca dei masterchef che imperversano ovunque perché ormai si sentono tutti grandi cuochi. Tutti, allora, a farsi selfie e video davanti a pietanze e fornelli vestiti da improbabili cucinatori, compresa la mia amica microinfluencer del lago che per questo motivo avrebbe voluto essere alla pizzeria di Losone al fianco di Piero e Paolo (che detto così sembrano un duo musicale come Paola e Chiara). Però sono riuscito a farla desistere, perché a differenza del Norman che il risotto lo cucina davvero, Piero e Paolo non preparano la pasta della pizza (tra l’altro, un prodotto-simbolo originario di un Paese dell’odiata UE), ma si limitano a infornare come dei garzoni qualsiasi. Che banalità, ha alla fine ammesso Asia con disgustato tono radical chic. Meglio prendere il battellino e con una bella cassa di Barbera fatto col mulo andare a Caprino invitati da un conoscente che nella sua cantina conserva ancora gli imballaggi del «formaggino del meno Stato» servito durante una cena di una campagna elettorale di molti anni fa quando Piero e Paolo erano ancora imberbi giovinetti ma sicuramente già sognavano di infornare «pizze del cambiamento». Se non litigano troppo con quelli di via Monte Boglia, per imparare a impastare e i segreti della lievitazione possono chiedere consiglio all’ottimo panettiere in pensione Giancarlo Seitz, già liberale, già socialista, oggi leghista baciapile (che non è uno status disdicevole, come sanno bene i «liberali della cotta») tra i promotori della raccolta di firme per rivedere la convenzione tra Consiglio federale e Santa Sede contenente una clausola, giudicata anacronistica, in base alla quale il vescovo di Lugano deve essere ticinese. Il direttore del Mattino Lorenzo Quadri, custode dell’ortodossia del bravo leghista, non gliel’ha lasciata passare, bollando il collega di partito come spalancatore di frontiere per vescovi balivi e d’importazione che verrebbero a comandare i nostri preti: «La Svizzera ed il Ticino non sono già sufficientemente svenduti?». Ancora una volta girano sganassoni tra leghisti, oltretutto su una faccenda chiesastica, ha commentato Asia ridacchiando. La vera notizia non è però quella che tra leghisti si menano, bensì il fatto che il vivace arciprete di Chiasso don Gianfranco Feliciani, che non le manda mai a dire, tanto meno su certi temi cari alla Lega e per questo ribattezzato «imam» dal Mattino, stavolta finisce per essere sulla posizione di Quadri, benché esprima il suo pensiero con altre parole. «Ho trovato l’appello inutile perché già oggi può diventare vescovo di Lugano un sacerdote proveniente da un altro Paese; l’importante è che sia diventato cittadino ticinese – ha fra l’altro dichiarato al CdT – Il vescovo non dev’essere un carabiniere inviato dal Papa a mettere tutti in riga, ma l’espressione del popolo che serve la Chiesa, un frutto di questa terra». La mia amica è stata presa dalla disputa e ha già fatto dei post e dei tweet. Fossi in lei sarei più prudente perché dalle beghe curiali possono uscire veleni terribili, anche se il Papa vuole bene agli svizzeri.