Alpinismo

Quando la vetta è una scommessa con la morte

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L’alpinista italiano Daniele Nardi, disperso sul Nanga Parbat. (foto dal web)
Paride Pelli
07.03.2019 06:00

«Se l’è andata a cercare». È questa la conclusione di molti riguardo alla tragica vicenda di Daniele Nardi, l’alpinista italiano di cui non si hanno più notizie da dieci giorni e di cui, al netto di improbabili miracoli, toccherà presto prendere atto della morte tra le nevi e i ghiacci del Nanga Parbat. Con lui c’era anche Tom Ballard, un inglese trapiantato nelle Dolomiti. Col suo drammatico epilogo, di fatto, la fallita impresa di Nardi sull’ottomila più temibile al mondo a pari merito con l’Annapurna ha diviso l’opinione pubblica, perplessa sul nuovo modo di concepire e praticare l’alpinismo estremo sdoganato dallo scalatore italiano. Fino a oggi, conquistare le vette più alte del mondo era nella maggior parte dei casi una disciplina coltivata «nel silenzio del vento», secondo la felice espressione dell’alpinista e saggista americano Jon Krakauer. Nardi, invece, ha ribaltato le prospettive, lanciando innanzitutto una rumorosa sfida alla «killer mountain». Egli, sin dall’inizio, ha curato la scelta delle corde e dei moschettoni al pari della presenza davanti alle videocamere, ostentando una leggerezza e una sicurezza tali da essere percepite dai più come spavalderia.

Eppure la sostanza c’era. Nardi e Ballard puntavano a raggiungere la cima del Nanga Parbat aprendo una nuova straordinaria via, la più diretta possibile, quella che contempla il passaggio attraverso lo sperone più famoso della storia dell’alpinismo, il Mummery, così battezzato in ricordo dell’omonimo scalatore inglese che da lì non fece mai ritorno, nel lontano 1895. Il Mummery non si è mai concesso a nessuno: fino ad oggi l’unico a sopravvivergli è stato Reinhold Messner, ma in discesa. Era il 1970. Il leggendario alpinista altoatesino e suo fratello Günther stavano cercando di fuggire dalla mastodontica montagna e si infilarono in quel terrificante canale: Reinhold ce la fece, suo fratello no e i suoi resti furono identificati solo 35 anni dopo. Fu una delle più dibattute tragedie dell’alta montagna, un monito ancora oggi più che valido. Proprio una delle frequenti valanghe che precipitano sul Mummery potrebbe essere all’origine della scomparsa di Nardi e Ballard. I due volevano essere i primi a salire per questo varco sfidando una stagione, l’inverno, in cui i rischi già notevoli a quelle quote aumentano esponenzialmente.

«Io non cerco la morte, cerco la vita, ma un po’ folle sono», ha dichiarato Nardi poco prima della partenza alla trasmissione «Le iene», quasi a voler esorcizzare la paura per quella che a tanti sembrava una scommessa con la morte. Oggi abbiamo pochi dubbi a proposito: se non una scommessa, era certo un pesantissimo azzardo. La pensa così anche un grande alpinista come Simone Moro: «Il passaggio sul Mummery ha un coefficiente di pericolosità mostruosamente più alto rispetto al rischio che io voglio assumermi nella vita». Parole chiare, inequivocabili. Non è dunque fuori luogo chiedersi, da profani dell’alpinismo, come sia possibile salutare una moglie e un figlio appena nato e partire per un’impresa quasi impossibile. Bastano davvero l’immenso splendore dei paesaggi e la fama del Mummery a spingerti a salire? O c’è dell’altro, magari l’infatuazione che si trasforma in ossessione con tutti i rischi del caso? Non ci sarà mai una risposta a tali domande.

Nardi, va detto, era la quinta volta che ci provava ed evidentemente aveva reputato che il coefficiente di rischio dell’impresa rientrasse nei suoi standard di sicurezza e di accettazione della fatalità. Eppure, come ha potuto osservare Simone Moro, «le vie che nessuno è mai riuscito a scalare prima nascondono insidie ancora più grandi». In altre parole, spostare sempre più in alto l’asticella del limite potrebbe non essere garanzia di rientrare nella storia dell’alpinismo, anche se la si spostasse con estrema perizia.

Resta che Nardi, oltre a voler inseguire il sogno di una vita, sentiva irresistibilmente – come molti alpinisti del suo livello – il richiamo della montagna, il desiderio di nutrire la sua anima, di far scorrere l’adrenalina nelle sue vene e di ritrovare se stesso in un paesaggio grandioso dove la natura non fa sconti e la morte è sempre lì in alto che ti osserva, indifferente ma attentissima. In tutto ciò, fondamentale è essere consapevoli della situazione e dei rischi che si corrono: nel caso specifico di Nardi e Ballard, molti esperti sostengono che si sia andati oltre, che lo sperone Mummery e le condizioni meteo in inverno abbiano generato un mix fatale. E prevedibile. Forse l’aver puntato su una forte mediatizzazione dell’evento ha finito per creare un’aspettativa troppo alta sia nei due scalatori sia nel pubblico che li seguiva via web da tutto il mondo. O forse, semplicemente, bastava ricordare l’insegnamento di Moro, e cioè che avere paura e tornare a casa non è per forza da deboli.

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