Quando l’America inventò Babbo Natale

Il 24 dicembre 1951 a Parigi, come in tutto il mondo, i giornali li vendevano per strada gli strilloni. E di solito per invogliare all’acquisto recitavano i titoli di prima pagina: eventi che dovevano far sobbalzare i passanti frettolosi e infreddoliti. Tra questi passanti doveva esserci anche Claude Lévy-Strauss, uno dei più grandi antropologi del mondo. Compra «France Soir». Il giornale riferisce che a Digione, grandi e bambini, dopo una riunione a cui hanno partecipato esponenti del clero, hanno dato fuoco a un pupazzo di Babbo Natale, o per meglio dire Santa Claus, davanti alla cancellata di una Chiesa. Perché Santa Claus era quanto di più lontano si potesse immaginare rispetto al Natale. Cosa stava accadendo? E perché grandi e bambini erano arrivati a questo? È una storia lunga, che vale la pena di raccontare. È l’invenzione di Babbo Natale.

Born in USA
Il Natale di questi decenni è un Natale americano. E si basa sul mito di Santa Claus. Santa Claus vive al Polo Nord ed è l’invenzione di un poeta che si chiamava John Webster. Webster nel 1869 diceva di lui: «is the near the North Pole, in the ice and snow». Ma siamo ancora lontani dal Babbo Natale con le renne che ci invade ogni Natale. Quello di Webster non è vestito di rosso, e come capiremo, è spiegabile che ancora non lo sia. E le sembianze non sono quelle bonarie, un po’ obese con barba bianca che siamo abituati ad attribuirgli. È un Santa Claus incerto, inventato da un poeta che, bizzarria, lo vuole vicino al Polo. Intanto i Natali corrono come come sempre, sono assai poco globali, restano legati ai riti religiosi, alle processioni. Spesso senza neve e senza personaggi che portano regali. In qualche caso il rito del regalo non è legato alla ricorrenza del 25. Ma al giorno di Santa Lucia o all’Epifania. Ma arriva la crisi del 1929, l’America è in ginocchio eppure reagisce, si rimbocca le maniche, e le grandi aziende devono inventarsi qualcosa. Nel 1931 la Coca Cola Company ragiona su come far crescere il fatturato partendo da un fatto: d’inverno, quando non c’è l’arsura della sete data dal caldo, pochi comprano la bibita. Perché c’è stato un tempo in cui estate e inverno non si confondevano, in cui le gelaterie aprivano a maggio e chiudevano a settembre. Oggi non c’è più differenza. Caldarroste e gelato stanno assieme. Il merito di questo, strano a dirsi è di Babbo Natale.
L’idea della Coca Cola

Perché alla Coca Cola hanno un’idea e per realizzarla chiamano un geniale disegnatore. Si chiama: Haddon Sundblom. Vogliono usare il personaggio di Santa Claus come testimonial della bibita. Ma va inventato quasi dal nulla. Quello di Webster, sarà per colpa dei ghiacci, sarà per il polo Nord, è piuttosto sbiadito. Così Sundblom comincia a lavorare. Santa Claus diventa rosso, come il marchio della Coca Cola, bonario, pacioso, porta doni e regali. Le immagini Coca Cola dei primi Santa Claus diventano concrete, generano i sogni dei bambini quando sperano di vederlo la notte del 24 dicembre. E comincia quella mitologia del Natale che al mistero sacro sostituisce il marketing. Accanto c’è Jingle Bells cantata da Frank Sinatra, White Christmas da Bing Crosby, Let it snow da Nat King Cole. Il Natale è servito. Sta lì, con le nevicate abbondanti del New Hampsire o del Vermont, con renne, slitte e, possibilmente, una Coca ghiacciata. E si diffonde per tutto il mondo. Non è più la voce di Eduardo De Filippo quando recita «Ti piace o’ Presepe» della tradizione napoletana, non è il Natale mediorientale. È un Natale commerciale, desacralizzato. Intanto Sundblom non si ferma. Continua a perfezionare e a disegnare Santa Claus in modo sempre più simile a quello che conosciamo oggi. E gli affari della Coca Cola crescono. Poi Hollywood fa il resto. Le atmosfere, le luci, il bianco e il rosso, e i crooner naturalmente.
Il marketing del sacro
Claude Lévy-Strauss rimane colpito dall’episodio di Digione perché Babbo Natale appartiene alla categoria delle divinità. Con la differenza, aggiunge il grande antropologo, «che ci credono i bambini e non gli adulti». Sono gli adulti a incoraggiare questa credenza nei bambini, a mistificare una figura che per loro non ha un valore rituale e divino. L’operazione Babbo Natale, o Santa Claus, parte da questa stranezza, che non ha precedenti in nessun mistero: o ci credono tutti o non ci crede nessuno. Non serve l’antropologia, basta il mercato, che per la prima volta inventa un immaginario e lo rende tradizione. È marketing del sacro. Forse il Natale andrebbe spacchettato come un regalo nuovo, restituito: di luogo in luogo. Forse bisognerebbe riprenderselo, una notte qualunque, senza luminarie, senza Let it snow o White Christmas senza neve e senza renne. Persino senza stelle. Ma con la sabbia dei deserti e con il mare, con la nebbia sottile e il silenzio. Ma è troppo tardi.
Il rogo di Santa Claus

Ciò che accadde alla vigilia di Natale del 1951 a Digione fu una cosa macabra e cupa: prima impiccarono un fantoccio di Santa Claus a una inferriata. E poi lo bruciarono davanti a 250 bambini festanti, alle autorità religiose, ai genitori. Una cosa agghiacciante. Fecero persino un comunicato, che per l’epoca, il 1951, era quasi innovativo dal punto di vista della comunicazione. Un comunicato congiunto, della chiesa cattolica e di quella protestante della Borgogna: «Abbiamo bruciato Babbo Natale, lo abbiamo sacrificato. Non è un evento spettacolare ma un atto simbolico. La sua menzogna non risveglia nei piccoli nessun sentimento religioso e non può essere educativa. Per i cristiani il Natale resta la ricorrenza che celebra la nascita del Salvatore». Ecco, per fortuna nessuno (o quasi) ci ha più riprovato.