Il commento

Quando l’informazione diventa pandemica

Il commento di Giancarlo Dillena
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Giancarlo Dillena
Giancarlo Dillena
06.05.2020 06:00

I l termine infodemia è in circolazione dal 2003, quando venne coniato per designare la frenesia informativa che accompagnò l’emergenza SARS. Ma è con l’arrivo della COVID-19 che ci siamo trovati di fronte, per la prima volta, ad una vera e propria dimensione pandemica anche in questo ambito. In pochi giorni uno tsunami di informazioni, indicazioni, considerazioni, valutazioni e altre variazioni sul tema ci è caduto addosso in quantità e con ritmi senza precedenti. Fatto comprensibile, viste la novità, l’impatto e l’estensione dell’epidemia. Ma anche fenomeno dalle molte sfaccettature e generatore di effetti indiretti sui quali, ora che siamo nella seconda fase e la pressione dell’attualità impellente sembra attenuarsi, è opportuno riflettere. E non solo la sempre enfatizzata esplosione di fake news che ha puntualmente invaso la rete. Ci sono stati anche effetti di distorsione più sottili, che vanno approfonditi.

Penso ad esempio all’immagine degli anziani e al loro statuto nella collettività. Ripetutamente presentati come fascia particolarmente a rischio, a loro sono stati indirizzati messaggi di solidarietà e attenzione protettiva, dettati dalle migliori intenzioni. Ma quale messaggio è realmente passato, nell’insieme della popolazione? L’impressione è che l’accento messo così insistentemente sulla loro vulnerabilità al virus, accanto a misure di esclusione come il divieto di accesso ai grandi magazzini, abbia generato una strisciante quanto diffusa forma di diffidenza nei loro confronti. Un atteggiamento esplicitamente non dichiarato – a parte dai soliti idioti della rete – ma che non pochi anziani hanno avvertito come palpabile. Parlare dell’«ombra dell’untore» sarebbe sicuramente eccessivo, ma di una spinta insidiosa verso un’accresciuta marginalizzazione forse no. Si dirà che questo è semmai l’effetto di un atteggiamento soggiacente già presente, in una società in cui i «vecchi» pesano parecchio (non solo in termini demografici). Ma se anche la mediatizzazione del tema avesse solo avuto un ruolo di rivelatore, basterebbe questo a imporre qualche riflessione.

Un secondo punto concerne il valore e significato delle cifre, con cui siamo bombardati con ritmo quotidiano: come fotografia rappresentativa della situazione e della sua evoluzione; a supporto di tesi interpretative a volte contraddittorie; significativamente discrepanti a seconda del Paese, della fonte, delle definizioni date a ciò che si intende misurare. Trattandosi di una malattia epidemica, che si faccia spesso ricorso ai numeri anche nell’informazione è più che comprensibile. Ma colpisce l’insistenza ossessiva su alcuni dati, come se essi dimostrassero, per il solo fatto di essere calcolati e presentati, una conoscenza precisa dell’evolvere del contagio e quindi un sostanziale controllo su di esso. Ma i numeri, al di là delle apparenze, dicono e non dicono, a seconda di come sono raccolti, assemblati, riferiti a un elemento più o meno preciso; e infine a dipendenza di come sono interpretati. Anche senza avere il sospetto di manipolazioni o strumentalizzazioni (ad esempio per giustificare misure severe a breve), non può non colpire questa enfasi numerica, che alimenta un’illusione di esattezza e chiarezza nel rappresentare la realtà, che presenta invece molti altri risvolti e soprattutto non poche zone d’ombra. Un solo esempio, restando alle cifre: perché aspettare tanto per una rilevazione sistematica, tramite campione rappresentativo della popolazione, del numero effettivo dei contagiati, lasciato invece a lungo a stime molto ipotetiche?

Un terzo aspetto da approfondire riguarda il ruolo e le modalità di comunicazione legate alle informazioni scientifiche. Quanti esperti si son sentiti in queste settimane, alle prese con domande giornalistiche che sollecitavano impossibili risposte semplici e nette? E quante volte le loro spiegazioni, se prudenti e articolate, sono state percepite come evasive? E in quante altre, invece, la scelta è stata quella di una scorciatoia semplificatrice, più vendibile ed efficace (soprattutto se in polemica con qualche collega), anche se dubbia nella sostanza? Al di là di queste dinamiche resta il fatto che il moltiplicarsi e l’intrecciarsi di molte, troppe voci, è di per sé generatore di potenziale confusione. Poiché la quantità – e a maggior ragione l’eccesso di quantità - è di per sé generatrice di confusione, quando giunge ad un pubblico già in ansia, sollecitato da molte parti, portato per sua natura a recepire solo frammenti di un discorso che già in partenza deve fare non pochi compromessi con la complessità del tema. Se a ciò si aggiunge la commistione fra dimensione tecnica (medici e ricercatori) e dimensione politica (tipo, tempi e modi delle misure adottate dai governanti), che l’infodemia non aiuta a chiarire ma semmai accresce, è sempre più difficile evitare la confusione.

Non si tratta, sia detto a scanso di equivoci, di demonizzare un’abbondanza informativa che è comunque preferibile alla scarsità che ha caratterizzato anche certi momenti di questa crisi (vedi censura sugli inizi). Ma quando l’abbondanza supera certi limiti diventa inevitabilmente eccesso. E l’eccesso è sempre un viatico di effetti perversi.

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