Quei selfie da vecchi e la privacy

Tutti noi, prima o poi, iniziamo a pensare alla nostra vecchiaia: chi con curiosità, chi con timore e alcuni con una certa ammirevole leggerezza, quasi volessero esorcizzare la parabola discendente della vita, lo sconosciuto crepuscolo.
La vecchiaia è la fase più avanzata del ciclo biologico: in essa si manifestano vistosi fenomeni di decadimento fisico e un generale indebolimento dell’organismo. È il momento in cui diventiamo più vulnerabili, sebbene da tempo una «quarta età» sia stata aggiunta da medici e sociologi alla terza, a causa di un’aspettativa di vita in costante crescita che vede la Svizzera tra i leader della classifica mondiale. Siamo tra gli ultimi a tagliare il traguardo con l’al di là e questa «sconfitta» è una bella vittoria. In Ticino addirittura – dati recenti – il 22,6% degli abitanti, quasi una persona su quattro, ha già compiuto 64 anni, un record a livello nazionale, tanto che potremmo allegramente definire il nostro cantone «un solare paese per vecchi». E in gran parte arzilli, a quanto pare. Dev’essere la robusta aria di lago e montagna.
Tuttavia da qualche giorno chi frequenta i social ha come l’impressione che gli anziani, pure in Ticino, siano aumentati esponenzialmente di numero in un brevissimo lasso di tempo. Di più: capita di vedere foto di amici – che ricordavamo energici trentenni durante l’ultima partita di tennis una settimana fa – precocemente invecchiati: ingrigiti, rugosi, con le borse sotto gli occhi, in alcuni casi incartapecoriti. Cosa è accaduto? La Terra ha iniziato a girare più veloce e non ce ne siamo accorti?
Tutt’altro. La causa di questo invecchiare collettivo e per fortuna solo virtuale è legata al successo di FaceApp, l’applicazione che appunto invecchia (ma può anche ringiovanire) i volti che le vengono sottoposti e che piace tanto anche ai VIP, i quali non di rado provano un sottile piacere nel vedersi (per un momento) meno splendidi e palestrati.
È un’applicazione divertente ma soprattutto gratuita, sebbene alcuni degli effetti e dei filtri più interessanti siano a pagamento.
Questo strumento di invecchiamento digitale è diventato talmente popolare (80 milioni di persone l’hanno già scaricato da gennaio 2017) che questa estate furoreggia il «FaceApp Challenge», un gioco social che consiste nel postare le proprie foto – su Instagram, e dove sennò? – con il volto invecchiato di ben 40 anni.
L’attore Leonardo Di Caprio in primis e perfino l’ex premier italiano Silvio Berlusconi (non è uno scherzo) hanno aderito alla sfida con i loro visi trattati con l’effetto «anziano». Altri come il presidente americano Donald Trump hanno fatto l’opposto mostrandosi ringiovaniti. La maggior parte dei partecipanti, comunque, è caduta nella tentazione di vedersi brizzolata e stagionata.
Una moda che ricorda molto da vicino quella denominata «#10 years challenge », un hashtag e un trend diventati un fenomeno globale alcuni mesi fa: la «sfida » – ricorderete – era quella di pubblicare una foto di oggi e una di come si era dieci anni fa.
Ma da «gioco» a «Grande fratello» il passo è breve: alcuni esperti avevano subito denunciato che dietro a questa moda ci potesse essere un’ingegnosa e seducente macchinazione per addestrare l’intelligenza artificiale a riconoscere e catalogare i volti delle persone partendo da una loro vecchia foto, con lo scopo ultimo di un’enorme raccolta dati finalizzata alla sorveglianza di massa.
Anche a proposito di FaceApp l’inquietante ipotesi sembra prendere consistenza, come suggerisce il fatto che i selfie «rugosi» vengano poi caricati su server esterni, per la maggior parte basati negli Stati Uniti, e qui conservati per un tempo indefinito.
I più pessimisti (o realisti?) temono che con il grimaldello di queste gare di vanità alcune aziende private stiano creando sterminati database destinati allo sviluppo delle tecnologie di riconoscimento facciale. Anche noi, con tutta la buona fede, facciamo fatica a non provare un brivido lungo la schiena: riusciremo ancora, in futuro, a fare quattro passi per strada senza finire schedati o filmati per questo o per quel motivo?
O forse, più semplicemente, a inquietarci è il sospetto che dietro a un simpatico selfie con i capelli bianchi – di quelli che strappano un sorriso, un pugno di like e gli sfottò degli amici – possa nascondersi un’esca per raccogliere informazioni e per alimentare un mercato dove i nostri dati biometrici vengono scambiati, analizzati, venduti e rivenduti in una catena infinita dove il nostro assenso iniziale, sempre che ci sia stato, gioca una parte piccola e/o impotente.
D’altronde, entro il 2020 i dati personali raccolti dai colossi mondiali del web saranno dieci volte quelli attuali, e già oggi il giro d’affari della data economy, nella sola Europa, vale qualcosa come 60 miliardi di euro, in costante e veloce crescita. Non dovremo aspettare di avere i capelli bianchi (quelli veri) per vedere questa cifra raddoppiata.