Eurovagando

Quella statua non racconta la vera storia di Ibrahimovic

Divagazioni a margine della partita fra Malmö e Lugano: il miglior calciatore di tutti i tempi è il simbolo di un progetto politico ambizioso ancorché problematico, il quartiere di Rosengård
La statua di Ibrahimovic a Malmö. © AP/Johan Nilsson
Marcello Pelizzari
24.10.2019 15:48

La statua, d’accordo. Ma il vero Zlatan Ibrahimovic si trova una manciata di chilometri più in là. Fuori dal centro. E da tutto. Malmö non è soltanto viuzze pittoresche, negozi di design e cibo raffinato. È anche difficoltà ed emarginazione. È Rosengård, il quartiere dove il più grande calciatore svedese di tutti i tempi è nato e cresciuto. Dribblando i suoi amici pericolosi e la polizia.

Palazzoni anonimi uno in fila all’altro, facce incupite, alti tassi di criminalità ed esclusione. Periferia, per farla breve. Rosengård vide la luce negli anni Sessanta. Fu la politica a volere questo e molti altri quartieri: il governo si impegnò affinché ognuno potesse avere una casa a prezzi ragionevoli. Il progetto, ambizioso, si chiamava «Programma Milione». Per molti si rivelò un fallimento, sia dal punto di vista architettonico (troppo cemento) sia sul piano sociale. Ibrahimovic, proprio lui, è allo stesso tempo il simbolo e il risultato di tutto ciò. Nato nel 1981, non festeggiò assieme agli altri bambini il terzo posto della Svezia ai Mondiali di USA ’94. No, lui sognava guardando le stelle brasiliane. Romario, Bebeto e via discorrendo. Evasione, capite? Difficile sentirsi svedese, dunque accettato, se nessuno sembra curarsi di te. Se nessuno sembra capirti, volerti. Tanto più se quel modello di vita, visto e immaginato dal ghetto di Rosengård, appariva come un qualcosa di irraggiungibile. Un’utopia.

Eppure, sua maestà Zlatan ce l’ha fatta. La sua è una storia di rottura. Un ragazzone abbonato alle marachelle (eufemismo) divenuto idolo di un’intera nazione.

Lasciate perdere la statua, allora. Inciso: non è nemmeno venuta così bene. Lasciate perdere, dicevamo, e pensate piuttosto a quella frase che Ibra ha fatto mettere all’entrata del campetto di casa sua. Si trova al centro del quartieraccio in questione e vi si può giocare giorno e notte. «Qui c’è il mio cuore. Qui c’è la mia storia. Qui c’è il mio gioco. Portalo avanti. Zlatan». Un invito ai tanti figli di immigrati ancora lì, a quelle anime imprigionate e dannate. Se ci è riuscito lui, lo sbruffone dal piede prensile, può emergere chiunque. Grazie al calcio, ma non solo.