Il commento

Quello spazio di Schengen ibernato da un anno

Il commento di Andrea Colandrea
© KEYSTONE/Gian Ehrenzeller
Andrea Colandrea
22.02.2021 06:00

A un anno esatto dalle prime serrate regionali nel Nord Italia a causa della pandemia (le immagini del vicino Lodigiano hanno fatto il giro del mondo), la libertà di potersi muovere senza restrizioni attraverso i confini sembra ormai diventata musica del passato, silenziata dai timori della diffusione del virus e ora resa ancora più tremolante con l’arrivo minaccioso delle sue insidiose varianti. Sono passati anche quasi 36 anni dalla firma del trattato di Schengen (in vigore progressivamente da 1995) di cui ora fanno parte 22 Stati dell’Unione europea e altri quattro Paesi associati tra cui, dal 2008, anche la Svizzera. Eppure, è sotto gli occhi di tutti, l’abolizione dei controlli sulle persone e la libera circolazione alla base dell’accordo, hanno subito un colpo durissimo. Si potrebbe dire che la piccola cittadina del Lussemburgo, mini Stato tra Francia, Belgio e Germania - e da tempo immemore definito il «polmone verde d’Europa» - abbia subito, in questo senso, un irreversibile colpo alla propria «identità» e immagine e che ormai non sia più la stessa. Che sia stata esautorata della sua simbolica valenza innovativa, rimessa in discussione dall’arrivo in sordina del coronavirus un anno fa, poi trasformatosi di botto nello tsunami mondiale che tutti conosciamo.

L’acquis di Schengen, da allora, non ha più le sembianze di un insieme di norme e di disposizioni che indica apertura e libertà di movimento, ma appare come una mera enunciazione protocollare snaturata dall’emergenza sanitaria, che ne ha sovvertito i principi violentando pure i contenuti etici alle sue fondamenta. L’arrivo del virus ha provocato la reintroduzione dei vecchi confini doganali europei nei quali ci si può (o ci si potrebbe) addentrare soltanto con permessi limitati nel tempo o con alla mano autocertificazioni o attestazioni valide (resta l’eccezione dei frontalieri), capaci di dimostrare l’esecuzione di test rapidi e tamponi nasofaringei per provare assenza di contagio.

All’abolizione delle frontiere interne, da quando è esplosa l’emergenza COVID, è seguito il ripristino dei controlli doganali in parecchi Stati dello spazio di transito comune. È però mancato, ed è questo il punto, un pur minimo e auspicabile coordinamento reciproco fin poco fa addirittura dato per scontato: le nazioni europee, da Nord a Sud, per limitare i contagi, si sono blindate dentro i propri confini senza neppure troppo interrogarsi sugli effetti economici, sociali e di traffico, che le loro decisioni unilaterali avrebbero comportato (e continuano a comportare). Volenti o nolenti è stato messo in crisi un sistema di scambi collaudato negli anni, che si è totalmente sottomesso - neanche tanto per il sottile - alla logica dei lockdown. C’è però chi è andato perfino un passo oltre. Regioni con un comune retroterra storico e culturale come la Baviera e il Tirolo - per citare un esempio di pochi giorni fa - non solo si sono ritrovate isolate l’una dall’altra, nel tentativo di confinare l’esplosione di focolai di contagio (prima a Ischgl e poi nello Zillertal), ma hanno anche inscenato un plateale fuoco incrociato di polemiche finito sulla stampa di mezzo mondo con danno reciproco. O vogliamo scordare il caos viario al Brennero del 15 febbraio scorso, quando migliaia di camionisti sono rimasti incolonnati per 40 chilometri dopo che Vienna, senza preavviso, ha deciso di sigillare la A22 a chi era sprovvisto di test antigenico o PCR con validità di 48 ore?

Cosa è rimasto di Schengen per effetto del virus? La Germania chiude i confini alla Repubblica Ceca, la Francia all’Italia, la Danimarca a sua volta alla Germania. E anche tra Ticino e Lombardia, per ora, tutto resta fermo al palo. Per buona pace del trattato di Schengen, messo all’angolo, per chissà quanto altro tempo ancora, dal mostro con i chiodi.