Fogli al vento

Questo Natale: se non fosse...

La rubrica di Michele Fazioli
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Michele Fazioli
Michele Fazioli
23.11.2020 06:00

Il capo del Governo italiano Giuseppe Conti predice un Natale di sobrietà. E lo dice con aria preoccupata, quasi che stia annunciando una brutta notizia. Gli danno man forte, nell’inquietudine, molti titoli mediatici allarmati. È certamente brutta in ogni caso, la notizia, per l’economia, i commerci, i mercatini, le piazze on ice, i festaioli dicembrini. Che dire? Se non fosse che nel periodo prenatalizio di solito i negozi si portano a casa un fatturato che spesso salva un anno intero di faticoso commercio; se non fosse che sotto Natale i ristoranti hanno il pienone quasi ogni giorno; se non fosse che il grafico dei consumi verso Natale si impenna e che insomma il denaro gira e fa girare denaro e tutto si accende di luminarie, cibarie e meraviglie varie e tutto si vende e si compera, nel frastuono; se non fosse che il Natale è da tempo un periodo di frenesia sociale, di assembramenti festosi e di ventilazione economica; ebbene, se non fosse così, verrebbe allora da dire: che bello, finalmente, un Natale sobrio. Confesso che mi attira la prospettiva di giorni natalizi più silenziosi, meno concitati e gridati, meno convulsi, meno commerciali e invece più calmi, interiori, quietamente sereni. Ci siamo sgolati, in tanti e per anni, nella deprecazione dei Natali dei consumi, fino a diventar noiosi e retorici, si sono udite nostalgie tremule per i lontani Natali di una volta con poche arance e bambole di pezza sotto l’alberello e la ricerca del muschio per il presepe con il nonno nei boschi e tutte quelle cose lì. Nella sostanza in moltissimi rimpiangevano appunto i Natali sobri. Come un valore. E adesso che ci tocca un Natale sobrio, scatta la lamentazione? Con tutta la simpatia solidale per chi sotto Natale riesce a dare una sistematina al proprio reddito, confesso di provare un certo sollievo al pensiero che quest’anno non mi toccherà vedere alcune piazze del Ticino trasformate per Natale in carnevale. E niente fiumi di prosecco e spritz e tripli baci in aperitivi gridati e salivosi e cene aziendali con frizzi e lazzi. Per i cristiani, poi, e mi vien da dire per quel che ancora resta di loro, non potrà essere che un guadagno la rarefazione del baccano esteriore e l’attenzione mirata e decisiva alla piccola luce della capanna di Betlemme, il resto è soprammercato (di lusso). Per i post-cristiani (ormai la maggioranza) il Natale, s’è sempre detto, resta comunque la festa simbolica e sostanziale della famiglia, degli affetti cari, del caldo cerchio sotto la lampada gialla della casa vera. Anche qui, cosa ci sarà di meglio di un quieto raduno d’affetti fra care voci note ogni anno un poco più stanche e care voci fresche e nuove? Certo, ci adatteremo un poco, ognuno organizzerà i propri ceppi familari con misura e con le debite e ormai famose distanze sociali. Faremo tesoro dell’ineffabile esortazione del medico cantonale di Basilea il quale, a conferma di come la Svizzera resti sempre un paese allegramente unico, ha esortato, per le feste e in caso di conviviali fondue, a non usare un coquelon unico per la cena di famglia un po’ allargata: che ogni piccolo fuoco familiare porti il proprio coquelon. Ognuno intingerà nel proprio pentolino genealogico e il virus sparirà, con l’aiuto magari di qualche bicchiere di troppo, come forse è accaduto al dottore di Basilea quando ha promulgato il suo consiglio. Farà anche bene ridere, appunto, in questo Natale sobrio che si preannuncia. Volendo invece essere appena un po’ più seri, viene alla mente la celebre poesia intitolta proprio Natale, di Giuseppe Ungaretti. Il poeta la scrisse il 26 dicembre del 1916, era un anno tremendo, in piena Prima guerra mondiale, e lui, soldato al fronte, era tornato a casa in licenza per alcuni giorni, a Napoli. C’era un mondo ferito, c’erano ansia, paura, lutti, figli, padri e mariti che non tornavano più. Molto peggio di oggi. Il Natale non poteva che essere sobrio, essenziale. La «festa» non poteva che essere vissuta stando nel cerchio di casa, di se stessi. Per poter tornare a vedere la realtà, il mondo, gli altri, persino la guerra, con sguardo quietato, salvato. Ritrascrivo qui dunque Natale di Giuseppe Ungaretti: «Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade / Ho tanta stanchezza sulle spalle / Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata / Qui non si sente altro che il caldo buono / Sto con le quattro capriole di fumo del focolare». Senza arrivare, per fortuna, alla solitudine ungarettiana, possiamo almeno dire che «Natale sobrio» non è una parolaccia?

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